Who Was He, un film di Donato Leoni, una lucciola firmataria del “neomodernismo”

Se sei incompreso temerai di non apparire strano. Erano forse vere le parole di Marco Aurelio nei suoi Tà eis autòn, scritti durante le campagne militari marcomanne del 170-180 d.C, quando si riferiva a un giovane che avrebbe rivissuto la sua età nel riciclo della storia.

Stranezza che si fa più stridente in un meandro strettissimo della nostra millenaria cultura visuale, quale lo spazio in cui ci sequestra la regia di Donato Leoni, chiamato Who Was He.

Un film che riapre in Italia i battenti dello spirito liberale dell’Arte già dal suo incipit, dove l’autore Leoni dichiara che la sua opera è completamente esito di un sacrificio privato dentro un tempio pubblico, che non ha visto nessun apporto economico contributivo da parte delle istituzioni e delle case di produzioni, ma completamente fondata sul cosiddetto “budget zero”.

Un film che ritrova lo spirito del sacrificio privato per l’interesse pubblico attraverso l’esempio del giovane regista Donato Leoni, dimostrando che il vero cinema non è fatto da una equipe di operatori, ma da un sodalizio di attori. Amici prima che colleghi, erano i personaggi dei primi film di Pasolini, la cui ricerca ermeneutica appare riproporsi proprio nella scrittura di Leoni.

Resistere alla gigantomachia degli studios con l’anomalia dello studio è come il nostro Donato Leoni affronta il mostro Golia del grande cinema. Laddove il monstrum del cinema è tutto ciò che è spendibile, l’autore di Who Was He risponde con tutto ciò che è eccepibile, e proprio per questo non mutuabile nel sistema mediatico.

Cinquantacinque minuti e ventinove secondi di una storia, quella che Donato Leoni racconta, che parla attraverso un altro codice linguistico, lontano dalle parentele narrative del cinema odierno.

Una storia che come dichiara l’introduzione è sì ispirata a fatti veri, cioè al suo piccolo figlio Gabriele, ma li espone secondo il criterio della “traslitterazione”.

Un criterio che veniva smesso di usare già subito dopo Akira Kurosawa, agli inizi del nuovo millennio che richiedeva una derogata adaequatio rei et formae alla domanda commerciale dei distributori e non più degli spettatori. Garantire le sale piene significava affascinare un vecchio pubblico di lettori e sedurre il nuovo di auditori con sperimentazioni tecnologiche che sopprimevano la parte narrativa per sollevare quella performativa.

La scrittura di Leoni è una eclissi della luce esecutiva nella penombra della scena espositiva, al cui interno l’osmosi tra radiotecnica e fonotattica scompensa la dieresi tra azione e storia, che sfilacciano lentamente il telaio del piano recitativo, approssimandolo quasi al nobiliare gergo teatrale.

La storia prevale sulla forma nella dimensione del regista e procede sovraccarica di semiosi linguistica e scevra di cosmesi scenografica, che anzi è ridotta nella sua essenziale mimesi testuale.

La tecnica pertanto non è quella tecnologica con cui Donato Leoni recupera il sostrato lumieristico della cognitio cogitans, ma è quella dialogica, capace di imprimere nella memoria dell’audioricevente l’immagine della sequenza narrativa.

E un aiuto alla lapidea trasmissione dell’immagine viene proprio dalla colonna sonora originale, composta per questa pellicola dall’esecutore musicale Max Lombardi.

Una colonna che quasi sembra seguire la ricetta enniana del règlement del suono montato.

La carenza di uno spazio interconnesso tra i nodi narrativi, spesso giustapposti per l’ipercorrettismo del montaggio, a cui talora poco sembra giovare la presa diretta, tuttavia concede l’espediente del rallenty simulato per una non altrimenti spiegabile euritmia sequenziale, di cui sono per la maggiore additabili a responsabili gli attori titolari delle quattro scene cardinali dell’opera. Marco Proietti per l’imprimitura della tela narrativa (dal minuto 6), Carlo Valli per l’intreccio (min 16.45), Flavia Rubino per la ricognizione (min 31.10) Lucrezia Sambucini per l’agnizione (min 53).

Dopo i primi minuti incipitari dedicati a un breve prologo espositivo affidati a Camilla Palazzi nei panni di una professoressa di scuola, che quasi emblematizzano il carattere più drammaturgico che filmico dell’opera, le fila del racconto vengono dimosse dall’incontro del protagonista Gabriel D. Star, incarnato dal volto dello stesso regista, con il maggiore Edgar interpretato da Marco Proietti.

Una long take prende avvio dal sesto minuto che inquadra ad angolo il soldato protagonista Gabriel e il maggiore mentre rivela il suo corso prolettico allo spettatore che assiste non immerso nella scena ma distante, con la stessa coerenza orsoniana di cui sembra essere ipotesto la scelta stilistica di Leoni.

Ma la cadenza sillabata di Marco Proietti è a dettare l’inizio dell’euritmia che attraversa l’intera scansione della storia. La sua gestualità che è direttamente afferente al retrogrado contesto militare degli anni ’40, in cui è ambientato il film, tradisce la negletta empatia attesa dal pubblico in un canale indiretto quale l’epirrema strofico col protagonista che a sua volta non guarda mai in faccia il suo superiore, ma sembra riflettere i dubbi di chi sta seguendo fuori dallo schermo.

La semplicità con cui si descrive il flusso epirrematico aperto da Proietti, portatore di un ruolo “agonista” quale il mandante congiuratore della missione segreta affidata a Gabriel, sarà quella che costituirà il falso deterrente delle vicende che infine si risolveranno a mera cornice di un paradigma attuale. La predestinazione pitagorica delle vite parallele. È questa l’arteria nascosta dietro cui si agitano i nervi dell’intera scena. E proprio in questa isotonia del tempo marchiata dalla precipua gravità mimetica di Proietti, e poi riprodotta fedelmente sul timbro della vendetta nel colonnello Williams (Carlo Valli) , dell’amore in Lavinia (Flavia Rubino) e del destino in Romina (Lucrezia Sambucini), risiede l’ironia tragica dello spazio storico che è espresso spazio quanto mai più vitale del presente.

Forse siamo davanti a una nuova via del cinema, che potrebbe fermare il ristagno di una palude troppo contaminata. Forse con Who Was He si apre la stagione di un “neomodernismo”.

Non sono casuali infatti le continue sovrapposizioni analettiche che oscillano tra il tempo della storia e il tempo del presente già dall’esordio narrativo, né i frequenti campi lunghi e piani americani che racchiudono sempre una polarità di soggetti, presagendo un epilogo quasi parallelo tra i due omonimi Gabriel e il Gabriele Leoni, il figlio del regista che si ritrova sin da piccolo a rivivere le stesse passioni di un passato militaresco e che da grande ormai anziano ritrova la sua vecchia Lavinia, anch’essa rediviva in una affascinante ed elegante Romina interpretata dalla giovane Lucrezia Sambucini, a lui antenata di vita e di morte.

Del resto di quella dualità che separa il presente dal futuro, così come il tempo della storia dal tempo del racconto, le scelte dal destino, se n’era già vista una breve anticipazione retorica in quel dialogo che sembra così ultimo, così testamentario, così un addio, tra un Gabriel che stavolta veste i veri abiti di Donato Leoni e il suo amico Gabriele Leoni Beccarini, dove quella birra e quella sigaretta segnano il fumo vano del piacere umano.

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Mauro Di Ruvo
2000, Bari, Critico d’arte, classicista e medievista. Redattore di Politica interna. Attualmente si occupa di Etruscologia e Diritto Romano a Perugia, dove conduce indagini sperimentali in Archeologia Classica. Si è occupato di Estetica cinematografica e filosofia del linguaggio audiovisivo a Firenze presso la storica rivista “Nuova Antologia” e collabora con la Fondazione Spadolini. È autore del romanzo Pasqualino Apparatagliole (2023, Delta Tre Edizioni), e curatore della recensione al libro Oltre il Neorealismo. Arte e vita di Roberto Rossellini in un dialogo con il figlio Renzo di Gabriella Izzi Benedetti, già presidente del Comitato per l’Unesco, per la collana fiorentina “Libro Verità”. Ha già curato per la “Delta Tre Edizioni” le prefazioni alla silloge Lo Zefiro dell’anima (2019) di Pasquale Tornatore e al romanzo Le memorie del dio azteco (2021) dello storico Saverio Caprioli. A novembre 2023, ha curato il Convegno “L’ombra del doppio: la dicotomia nella poiesis” nella città di Lavello.

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