Quattro scrittrici italiane si raccontano al Salone del Libro di Torino
Il progetto Donne 20/80+ presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino nasce in collaborazione con l’associazione torinese Se non ora, quando?, la quale ha come scopo quello di combattere le discriminazioni e gli stereotipi di genere che continuano a pervadere la società italiana riunendo donne differenti per età, professione, provenienza, appartenenza politica e religiosa. L’associazione crede che nella forza collettiva delle donne risieda la capacità di smuovere la politica fino al raggiungimento di una parità equa concreta.
Partendo proprio dal tema del Salone Vita immaginaria, quattro donne e scrittrici, riunite nell’Arena Bookstock del padiglione 4, hanno interpretato in chiave personale la Vita immaginaria delle donne. Le protagoniste dell’incontro sono state Sabrina Efionayi, Melissa Panarello, Viola Ardone e Dacia Maraini, scrittrici di generazioni diverse che hanno portato i loro racconti tra desiderio e conflitti familiari.
Per molto tempo, diceva Ginzburg, noi pensiamo di essere le sole persone al mondo ad avere una vita immaginaria. Tardi arriviamo a capire che è una cosa di molti, forse di tutti.
Sabrina Efionay è la prima autrice a prendere la parola. Afrodiscendente di origini nigerine, nata e cresciuta a Castel Volturno, nella provincia di Caserta, ha raccontato la sua storia in Addio, domani (Einaudi) e in un podcast pluripremiato (Chora Media-Spotify Studios). Nel suo ultimo romanzo, Padre nostro (Feltrinelli), la protagonista è una giovane donna che intraprende un percorso per conquistare la libertà negata dal padre. Nella vita immaginaria di Efionay traspare la sensazione di non sentirsi mai abbastanza legata non solo all’esser donna, ma anche al senso di appartenenza o, meglio, di non appartenenza. Sarà sbagliata la mia voce, legge la scrittrice, troppo accento, troppo poco accento; troppo del sud o troppo poco del sud per capire cosa significa essere una donna del sud. Queste parole chiarificano la condizione di inadeguatezza portata da una giovane donna che deve fare i conti con le sue origini e con la difficoltà che risiede nell’integrazione di un soggetto che non viene mai percepito come abbastanza da un contesto sociale escludente.
La decade 30/40 è rappresentata dalla scrittrice Melissa Panarello. Nata a Catania, ha scritto il suo primo romanzo di successo, Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire (Fazi) a soli diciassette anni; attualmente è candidata al Premio Strega con il suo ultimo romanzo Storia dei miei soldi (Bompiani). Nella sua risposta alla domanda Cos’è, per te, la vita immaginaria?, Panarello porta il legame che può esserci tra autobiografia e vita immaginaria, tra la felicità e il rapporto intrecciato con il desiderio, la famiglia e il successo. Da subito, nella vita che racconta, a partire dalla prima telefonata della casa editrice Fazi, c’è l’immagine del conflitto materno. Perché lei era mia madre, e alle madri non si fa male, afferma l’autrice, trasmettendo quel senso di colpa e di unicità che caratterizzano il rapporto con il materno. Panarello racconta del suo arrivo, insieme al padre, alla casa editrice romana: in quel momento, mentre ero in attesa seduta sul divanetto all’ingresso della casa editrice, ero felice perché non sapevo che cosa mi attendeva; poi entrammo nella stanza dell’editore, il signor Fazi, e quello che accadde dopo si conosce. Quello che non si sa è che la mia appena nata felicità era terminata appena usciti da quell’ufficio, quando mia madre chiamò mio padre per sapere com’era andato l’incontro e per accettarsi che mi avessero pagato (…) dov’erano i soldi?
La relazione madre-denaro è il fulcro del racconto in quanto la giovane scrittrice svilupperà lo stesso senso di colpa che prova nei confronti della madre, anche nella relazione con il denaro, il quale le sembrerà (così come l’amore) sempre immeritato. Nella mia vita immaginaria, conclude, io ero sempre da sola. Poi, però, è arrivata la realtà e mi ha spiazzata perché mi ha regalato l’amore.
Il viaggio negli anni continua con la decade 40/50 con Viola Ardone, insegnante di latino e italiano nella provincia di Napoli, a Giuliano. Il successo arriva con due best-seller pubblicati da Einaudi, Il treno dei bambini (2019) e Oliva denaro (2021). Nel suo ultimo romanzo Grande meraviglia (Einaudi), l’immaginazione ha un ruolo vitale per la protagonista poiché le permette di sopravvivere all’interno di un manicomio.
O vita, vita immaginaria, clausura prepotente e volontaria, vita vissuta attraverso lo spirito, vita seduta, vita di relitto, questo per me è scrivere: innalzare dighe.
La vita immaginaria di Ardone è una clausura volontaria dettata da una muta santità. La scrittrice legge della sua infanzia e del suo voler diventare santa, non suora, ma santa. Tuttavia, questa santità non è legata ad una religiosità, bensì alla santità delle parole: c’era una volta, c’è ancora, ci sarà per sempre. Ardone ci riconduce alla forza contenuta nell’immaginazione, all’estasi che le parole possono produrre, alla fede che richiede la scrittura e il credere il qualcosa che, in un primo momento, è ancora nella propria mente. Se penso il vero, finisce la festa. La realtà, infatti, mette fine al desiderio di infinito e a quella necessità di guardare oltre il reale.
L’ultima ospite ad esprimersi è Dacia Maraini, un’autrice che ha raccontato la storia di tante donne alla determinata ricerca della loro libertà. Secondo Maraini, la storia della segregazione femminile ha permesso alle donne di sviluppare una tendenza verso l’immaginazione più forte rispetto agli uomini. Questo perché la forza dell’immaginazione crea il mito; i miti nascono dal desiderio di qualche cosa. Portando un riferimento con Madame Bovary di Flaubert, l’autrice si concentra sul desiderio e sul senso di evasione che trova rifugio nella lettura. Come ricorda Maraini, Flaubert fu accusato di oltraggio alla moralità pubblica e religiosa poiché si ritenne che il personaggio di Emma Bovary potesse indurre il pubblico femminile all’adulterio. Tuttavia, l’unica colpa di Madame Bovary è stata quella di ambire ad una vita di cui aveva sempre letto e solo immaginato. In realtà, Emma è una donna vittima delle illusioni della società del suo tempo, dei moeurs de province (costumi di provincia, nonché sottotitolo dell’opera stessa) che incastrano la donna in una sola e unica condizione: quella di sposa e madre. La morte violenta di Emma, che si conclude con una grande risata della protagonista, può essere vista sia come la punizione per il suo adulterio, ma anche come l’unico modo per essere davvero libera. Emma, c’est moi, affermò Flaubert in sua difesa, ma Emma è anche tutte noi ancora alla ricerca di una vita immaginaria che possa renderci libere dalle inuguaglianze della società contemporanea.
La vita immaginaria delle donne, in questo caso italiane e scrittrici, si muove tra l’inadeguatezza generazionale e il rapporto conflittuale con la famiglia; il rapporto con il denaro e il desiderio d’immaginazione come mezzo per sfuggire dalla propria condizione.
Ma qual è la vita immaginaria di tutte quelle donne lontane dalla figura borghese di Emma Bovary?
L’unione femminile dovrebbe domandarsi se il diritto all’immaginazione non sia un privilegio solo per alcune, ma una possibilità di cambiamento per tutte.