Verba manent: Sergio, il “leone” del cinema mondiale

Trent’anni fa cadeva il muro di Berlino e moriva Sergio Leone. Due colossi, l’uno divisivo, al cui crollo furono versate lacrime di gioia, l’altro inventore, alla cui morte si pianse di nostalgia. Sergio Leone è stato un gigante, con la barba lunga e bianca, possente ma innocuo, un uomo che malgrado il successo non ha mai dimenticato le proprie radici, classico e innovatore al tempo stesso. Era una persona rara, la quale lasciava intuire al primo sguardo che avesse molto da raccontare, ma era altresì umile, nella sua grandezza. Il “leone del cinema”, romano di nascita e di allegria, ha reinventato il mito americano delle grandi terre, dell’eroe cinico, solitario, poco interessato al sangue ma assai invaghito dai dollari, con un sigaro tra le labbra, un cappello calato, lo sguardo smargiasso e la pistola sempre pronta a fare fuoco. Tanti primi piani, tanto zoom, quasi ossessivo alla ricerca dell’espressione silenziosa degli attori, tante dilatazioni narrative, tali da coinvolgere a pieno lo spettatore nella scena. Il suo western era sporco, barbone e tuttavia maestoso, più grande dello schermo sul quale veniva proiettato, immagine tanto reale quanto viva nella testa dello spettatore. E se il West è un mito, cioè un racconto al confine fra verità e idealità, Sergio era il bambino che, dietro alla cinepresa, di notte sognava quel mito, e di giorno lo metteva in scena. Le passioni che si vivono da piccoli si ricordano per sempre e lo schermo, in certi casi, serve solo a perpetuarne la memoria.
Infine, se è assodato che “quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto”*, allora Sergio Leone nacque già con in mano il fucile. E la cinepresa.

* [Clint Eastwood, “Per un pugno di dollari”, 1964, ndr]

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