La notizia delle indagini a carico di Beppe Grillo ha scatenato due popoli: i forcaioli di sempre e i vendicatori. Ovvero chi, già da prima dell’avvento grillino, era per le manette, per le condanne preventive rispetto ai processi; e chi, invece, ha subito proprio da Grillo e compari l’onta giustizialista e oggi si sfrega le mani bramose di vendetta.
Il fondatore del Movimento è indagato per traffico di influenze, un reato generico per il quale è facile, in presenza di certi comportamenti, non necessariamente rilevanti, finire sotto indagine. Che in Italia significa bombardamento mediatico per settimane, se non mesi, fino alla sentenza: se favorevole, tutto tace, se al contrario di condanna, ripartono le bombe. E come spesso accade anche i tempi in cui la notizia è emersa lasciano alcuni dubbi, tra Quirinale e dissidi interni al Movimento.
Sulla moralità garantista del personaggio, beninteso, non v’è dubbio: il partito da lui fondato ha contribuito a ridurre la giustizia a una battaglia ideologica, dove tutti, o quasi, sono dei colpevoli in attesa di sentenza. I tempi sono cambiati, poi, e il Movimento 5 Stelle è diventato establishment; tuttavia se è mutata la forma, la sostanza è rimasta la stessa di sempre.
Ciò, però, non avvalora le posizioni di chi sta gioendo delle indagini a carico del comico. Adoperare la stessa moneta soltanto per mera vendetta non aiuta a risolvere un problema tipicamente italiano, cioè i processi mediatici, i bersagli eliminati tramite un accenno di (in)giustizia.
Se “La Repubblica” ieri ha titolato con Grillo il lobbista, probabilmente per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, ciò non significa che debba piovere fango su Grillo. Che avrà difetti, poche mezze misure, colpe politiche accumulate negli anni, epiteti lanciati senza vergogna, ma giammai scambiare princìpi per manette.
Per un banale momento di gloria si rischierebbe di appesantire un sistema già marcio, violento e indecoroso che quel Grillo, in parte, ha sposato. Ne varrebbe comunque la pena?