Verba manent: pensieri tra guerre, Israele e Palestina

Se fino a qualche tempo fa ci sembrava assurdo che uno Stato invadesse – o comunque attaccasse – un altro territorio limitrofo, riportandoci a epoche date per storia e non per presente, l’ulteriore guerra di Israele dimostra quanto sia sottile il filo della speranza. Quella speranza di chi pregava che l’Ucraina durasse poco come conflitto, che le parti trovassero un accordo, che l’Europa, l’ONU e gli altri attori internazionali riuscissero nella mediazione; tutto vano, perché la guerra non conosce ragioni se non la perversa follia che spinge uomini obbedienti a uccidere altri uomini senza neppure conoscerli. Il terrorismo, che ha scatenato di nuovo le ostilità in Israele, è un’evoluzione della guerra tradizionale, tuttavia molto più infima e codarda.

Da qualche giorno ci stiamo confrontando con l’ennesima guerra alle nostre porte. Nulla di nuovo, perché la questione ucraina nacque già almeno dieci anni or sono con le ambizioni russe in Crimea e quella israelo-palestinese ha radici molto profonde, quasi, potremmo dire, che affondano nella storia dei tempi. Eppure realizzare che si spara ancora e più vicino a noi ci rende fragili, ci mostra come siamo impotenti di fronte agli avvenimenti del mondo. Il cerchio si stringe, giacché Israele, più che Kiev, è legato indissolubilmente alla nostra storia. Per motivi religiosi, poiché è la casa storica del nostro credo, terra che preghiamo e difendiamo moralmente tutti i giorni; per motivi politici, perché è un baluardo atlantico alle porte del Medioriente che ribolle di fanatismo, islamismo, instabilità. 

Supponiamo di essere intelligenti a tal punto da capire che l’escalation recente non finirà presto e, quindi, il prossimo futuro militare vedrà l’Italia impegnata su più fronti, con la speranza che la guerra non si allarghi e Iran o Libano non possano entrare come protagonisti del conflitto, schierati al fianco di Hamas. Già, Hamas, non esattamente la Palestina: i palestinesi sono da decenni schiavi del terrorismo di Hamas, che si è fatta organizzazione “politica” e ricerca consenso nella popolazione con la forza. Antisemiti, antisionisti, negazionisti dell’Olocausto tengono sotto scacco i civili che vorrebbero vivere senza bombe, senza guerre. 

Può sembrare assurdo, eppure proprio là dove germogliò una religione che predicava pace, amore, fratellanza, da sempre ci sia morte, odio e guerra. E che questi sentimenti vengano esportati anche altrove, perfino in Paesi democratici, che dovrebbero dire no alla guerra ma difendere altresì chi viene attaccato con viltà. Ecco, quindi, che in Italia c’è qualcuno che difende Hamas, che tifa Palestina, che si schiera con Putin, che spiega perché la Russia abbia ragione e l’Ucraina torto. Dai social alle televisioni, lo spazio c’è e viene occupato da caricature che purtroppo fanno proseliti e convincono qualcuno delle proprie assurde teorie. 

Siamo tutti felici che Patrick Zaki sia tornato in Italia, portato via da un regime illiberale che avrebbe potuto continuare a torturare la sua persona e il suo pensiero. Ma proprio perché è in Italia, e non più in Egitto, può concedersi il lusso di tifare Palestina e definire Netanyahu “serial killer”. È giusto che lo dica, perché la libertà di espressione, anche quando non piace, è sempre la beffa migliore davanti ai regimi. Anche nell’Israele del “killer” avrebbe potuto dirlo. Dubitiamo, invece, che possa avere la stessa libertà di offendere Hamas trovandosi a Gaza o, chiunque altro, di offendere Putin trovandosi a Mosca. 

Una lezione per costoro: ricordatevi dove siete quando professate liberamente pensieri al vetriolo, perché è grazie alla terra dove poggiate i vostri piedi che nessuno potrà imprigionarvi per aver detto la vostra opinione. 

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