Il virus avanza e tornano le restrizioni. Come una molla, il governo tira e allenta il Paese inseguendo il Covid, nonostante vaccini e booster tra i più alti in Europa.
In base al nuovo decreto, la capienza degli stadi sarà ridotta di nuovo: 50% di spettatori, contro il 75% finora concesso. È questa la metafora dell’Italia, le cui decisioni rappresentano l’incertezza di chi è al governo e, soprattutto, quella dei vertici della sanità nazionale e internazionale.
Stadio, luogo di passione, divertimento, sport, economia e tifo. Prima vietato, per tanto tempo, poi riaperto gradualmente, con sempre più pubblico. Poi finalmente il miraggio: tre quarti di spettatori, ma abbonamenti sospesi. Vissuto da dentro, tanta era la foga di tornare, il clima sembrava più acceso che con i posti pieni. Dal 10 gennaio, dopo la ripresa del campionato, nuovamente meno gente.
Lo stesso accade già oggi nei bar, dove anche solo per bere un cappuccino al bancone serve il pass rafforzato; anche lì, in un certo senso, si è tornati indietro. Si avanza, seppur lentamente, invece, davanti alle farmacie, assaltate da persone ansiose per l’esito del proprio tampone – in Umbria un farmacista è stato preso a testate perché spiegava a un uomo di aver finito i tamponi.
Tornare indietro, quindi, è il mantra del governo. Un incontro di scherma tra noi e il virus, che quando dà stoccate ci fa indietreggiare fino al limite.
Draghi sta svolgendo un lavoro importante e ha contribuito all’incremento delle somministrazioni. Tuttavia, se ad aver preso le decisioni ufficializzate ieri fosse stato Giuseppe Conte, tutta la stampa, fuorché un caso, gli avrebbe attaccato addosso il cartello “Wanted”. Ai governi occorre riconoscere bravura e coraggio nelle scelte, ma bisogna anche avere coerenza nel misurarle. Se chiudere è difficile, giacché impopolare, per il governo di oggi, lo era anche per quello di ieri. Diversi, però, i pesi adottati dall’opinione pubblica.
La speranza condivisa, comunque, resta quella di tornare a vedere uno stadio pieno, educato e responsabile, metafora di un’Italia in cui oggi conta solo la tribuna d’onore e non la curva.