Chi ha la presunzione di poter fare chiarezza su una guerra, o su un fatto di essa, è un illuso o un illusore. A maggior ragione, se quella guerra deriva da fenomeni religiosi millenari, identitari, ideologici, etnici, culturali e chi più voglia aggiungere, aggiunga. L’ultimo atto del conflitto israelo-palestinese è l’attacco dello Stato ebraico al contingente Unifil. Una mossa probabilmente deliberata, volta a spaventare e a cacciare, per lasciare spazio a Netanyahu di agire come vorrebbe – il presidente, diciamo ironicamente, vorrebbe forse avere l’intero Medioriente a disposizione, ma questo è un altro ragionamento. Il fatto è grave e merita attenzione.
Soprattutto, è degno di una riflessione al di là del tema geo-strategico, analisi che spetta a chi di competenza. A noi interessa l’aspetto interno, nazionale e occidentale, di sostegno cieco a Israele. Ricostruiamo brevemente: Israele è un avamposto democratico, dove convivono in pochi chilometri quadrati le tre religioni più professate al mondo, si trova in un territorio instabile, è bersaglio di terroristi ed estremismi islamici perché è visto come un nemico in un luogo inaccessibile ai valori occidentali. Ma combatte anche una guerra atavica, che a periodi esplode di nuovo. È successo un anno fa, e tutti abbiamo condannato il vile attentato, l’orribile mattanza. Da lì, un piano strategico: vendicarsi e arginare il terrorismo. Bene, sosteniamoli. Poi le prime vittime civili, le strutture laiche attaccate, gli ospedali, le scuole. Un territorio, quello di Gaza, definitivamente raso al suolo. Poi l’invasione del Libano, poi l’attacco a Unifil, che si trova lì in missione internazionale con l’obiettivo di garantire sicurezza e ristabilire l’autorità del governo libanese nell’area.
Unifil è fatto anche da italiani – quelle forze armate tanto care al governo, che svolgono un lavoro rischioso ed encomiabile, ma dagli effetti finora impercettibili. Era così inimmaginabile che Israele, nella piena dell’euforia bellica, attaccasse Unifil? Forse no, e allora non sarebbe stato il caso di rivedere alcune posizioni nei confronti di Netanyahu? Signori, è lecito cambiare idea. Certe volte è perfino sintomo di etica e intelligenza discostarsi da posizioni assunte in precedenza, quand’era giusto farlo, per virare verso orientamenti al momento più doverosi. Non da oggi, bensì da mesi Israele ha esagerato, perseguendo solo il proprio interesse whatever it takes. Quell’interesse – anticipiamo già le riflessioni degli atlantisti col paraocchi e col fucile in mano altrui – non può essere l’interesse atlantico, occidentalista, se i mezzi con cui viene perseguito sono genocidari e sanguinosi.
Le democrazie del mondo dovrebbero ribellarsi, alzare la voce e nei consessi decisionali ritrovare un’unità d’intenti per arginare il furore di Netanyahu. Non diremmo di destituirlo, perché chi vive in democrazia e ragiona di democrazia non può desiderare qualcosa in maniera anti democratica. C’è solo da dire che il presidente israeliano non gode più del consenso popolare che aveva prima. A una domanda sul fatto che il premier stia facendo di tutto per riportare gli ostaggi in patria, il 61% degli intervistati ha risposto di “no”. L’ex capo dello Shin Bet, Nadav Argman, ha auspicato un cambio di premiership in Israele.
Qualcuno, in Italia e in Europa, dovrebbe accorgersene altrettanto.