Verba manent: la tragica storia di Musa

È la storia di Musa Balde, ventitreenne della Guinea, vittima di un’aggressione qualche settimana fa, irregolare in procinto di essere espulso dall’Italia. E impiccatosi con le lenzuola del suo letto nel Cpr. Uno dei tanti che arrivano, disperati, senza smartphone né vestiti firmati, ma con tanta voglia di futuro, illusi da una sogni esperienze vane.

E così, sballottati tra una propaganda di sinistra e una di destra, finiscono nel vortice dei ricollocamenti e dei rimpatri. In preda, cioè, a quella burocrazia che se fa penare i cittadini, figurarsi gli stranieri. Strutture sovraccariche, hotspot pieni e via di vagabondaggio o, peggio, vittime di caporalato. 

Alcuni media riportano la notizia che Musa fosse stato picchiato, a suon di calci, bastonate e pugni, da tre uomini a Ventimiglia perché aveva tentato di rubare un telefono a uno di essi. Questa versione, tuttavia, è ufficiosa. È ufficiale, invece, la realtà dei fatti: un’aggressione forse aggravata da motivi razziali, di quelle che, quando il singolo diventa branco, non risparmiano nessuno e la cui intensità cresce parallelamente all’ira. All’uomo buono, mediamente pensante, sorge un interrogativo: perché? Quale la ragione della brutalità umana? Fino a che punto il colore della pelle, quand’anche diverso, può annebbiare la mente di un individuo?

A queste domande risponderà la legge, confidando nella celerità e nel buon andamento dei processi. Noi, cittadini che ci rattristiamo ma spesso non facciamo niente per combattere il razzismo, constatiamo ciò che vediamo. È struggente dirlo, anche a pena di essere tacciati di ‘buonismo’ e ‘generalismo’, ma quando un italiano s’impicca il popolo si stringe. Quando, invece, un immigrato s’impicca, il popolo si gira dall’altra parte. Ricordiamocelo, a futura memoria: anche gli immigrati s’impiccano. 

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