Etica e diritto spesso fanno a pugni, perché si basano su fonti profondamente diverse. La legge contro la morale, nella partita per decidere come gli uomini debbano vivere. A volte, però, diritto ed etica coincidono: è il caso di quelle norme che, oltre a disciplinare un determinato fatto, rispondono altresì a finalità valoriali alte. La rieducazione del detenuto, l’attenzione che il sistema deve porre alla sua salute fisica e mentale, il trattamento che deve assicurarsi che egli riceva; esempi concreti di come il diritto non sia solo filosofia teorica, ma nella prassi risponda anche a domande di umanità. È triste assistere, talvolta, a violazioni di principi come questi, anche quando chi deve riceverli sia colpevole di reati gravi o non sia il perfetto esempio di quale condotta adottare nel corso della vita.
Oggi ricordiamo Jordan Jeffrey Baby (Jordan Tinti), che si è suicidato nella notte tra lunedì e martedì nel carcere di Pavia. Aveva 26 anni e quattro anni di condanna da scontare per aver commesso una rapina aggravata da odio razziale. Si è ammazzato con una corda stretta intorno al collo, nel silenzio di un sistema che troppo stesso assiste, non senza colpe, a casi di questo tipo – nel 2023 in media ogni cinque giorni una persona si è suicidata nelle carceri italiane e nel 2024 siamo già a quota 20. Il primo punto da considerare, così togliamo dalla bocca dei buonisti frasi del tipo “era un trapper criminale”, è la sua situazione di colpevolezza. Non ci nascondiamo certamente dietro a un dito: Jordan Baby era un pessimo esempio di condotta sociale giovanile. Spesso sui social mostrava atteggiamenti sprezzanti, deplorevoli, aveva rubato la bicicletta a un nigeriano e lo aveva insultato pesantemente per il solo fatto di essere nero. Non stiamo dunque difendendo l’etica dell’uomo.
Vogliamo invece sottolineare, come seconda questione, il fatto che più volte Jordan avesse mostrato dei lati di sofferenza durante il periodo di detenzione. Aveva già tentato il suicidio, aveva mostrato evidenti segni di cedimento psicologico e nessuno ha fatto niente per aiutarlo. Sì, d’accordo, le carceri sono sovraffollate, sì, senz’altro, l’ordinamento penitenziario è sotto organico per poter gestire ottimamente tutti i detenuti. Ma a 26 anni non si può morire in carcere. Non si può non solo perché c’è una speranza per tutti, anche per quelli “con i tatuaggi in faccia” e che non mostrano segni di cambiamento, ma soprattutto perché a tutti deve essere assicurato un trattamento umano dignitoso. Ce l’ha ricordato anche la Corte di Strasburgo (sentenza Riela), che ha ribadito come i trattamenti degradanti non possano esistere in uno Stato di diritto come l’Italia, che deve assicurare cure mediche e tempestive ai detenuti.
Dovremmo cominciare a osservare meglio la realtà penitenziaria nel nostro Paese. Là dentro non ci sono solo criminali condannati, ma anche persone che lo Stato deve cercare di rieducare con tutte le forze. Lo deve in primis ai padri costituendi, che hanno sancito nell’art. 27 un dogma inequivocabile. Lo deve anche a se stesso, perché uno Stato che ha cura di chi ha sbagliato rappresenta un sistema che getta delle basi di miglioramento sociale e giuridico. J