Verba manent: la beneficenza, oltre il caso Ferragni

È un dilemma di lunga data, quello della beneficenza pubblica. Se fai opere di bene, purché lo siano davvero nella misura in cui tu le compi, e poi ne sbandieri pubblicamente l’accaduto, vieni tacciato di ostentazione. Oppure, opinione che intendiamo accogliere, se sei una personalità influente puoi spingere altri, come e quando possono, a fare lo stesso. Chiara Ferragni, però, è un caso a parte. 

Lo è perché è una delle influencer più note al mondo, fattura come una media azienda italiana e si spende da tempo in dibattiti politici e in cause di utilità sociale. Avere influenza, per Chiara, significherebbe esporsi a 360 gradi sulle principali tematiche, con l’idea di far confluire l’opinione pubblica più da una parte, rispetto a un’altra. Nell’ultimo caso che la riguarda, quello del pandoro e della multa con tanto di esposti per truffa aggravata, l’errore commesso è stato quello di legare la solidarietà umana all’aspetto commerciale, con la speranza di farla franca. Ovviamente il procedimento legale avrà il suo corso, ma ci preme sottolineare come la beneficienza possa essere un’arma a doppio taglio, soprattutto se si è famosi. Non è la prima volta che Chiara Ferragni etichetta la beneficenza col suo brand: ci sono state le uova di Pasqua, che avrebbero fruttato all’influencer 1.2 milioni di euro, mentre solo 36 mila sarebbero andati all’associazione benefica (numeri fuoriusciti da un’inchiesta giornalistica recente, da verificare). A prescindere dai numeri, rimane l’aspetto imprenditoriale. Quando la beneficienza si lega al personale guadagno, è molto difficile non finire nella deriva dell’accumulo. Domanda banalissima: perché non collaborare con un’azienda dolciaria italiana etichettando col proprio logo il prodotto al fine di venderlo solamente, per poi fare beneficienza in separate sede, anche pubblicamente? Sarebbe bastato questo per guadagnare – non crediamo veramente che le persone abbiano comprato dolciumi festivi perché finalizzati alla beneficienza, anziché principalmente per il marchio “Chiara Ferragni” – e per essere solidali in un secondo momento.  

Il tema è delicato: donare significa apparire oppure serve a spingere altri a farlo? In una società con generali derive egoistiche, al netto di una disparità sociale in rapido aumento, la beneficienza è un valore universale. Che dovrebbe riguardare tutti, in proporzione alle proprie capacità. Aiutare gli altri significa consolare, guidare, servirli fisicamente laddove sono impossibilitati a servirsi da soli, non vuol dire soltanto offrire denaro. Spesso alla ricchezza si associa la solidarietà, per un umano principio secondo il quale chi raggiunge ambiziose posizioni ha il dovere – morale – di restituire a chi non ha potuto (per povertà o per malattia) una piccola parte. In questo meccanismo circolare di solidarietà, il mondo diventa un posto migliore dove vivere. L’aiuto è una soddisfazione di bisogni primari, ma anche uno stimolo a credere in se stessi. 

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