L’America è affetta da un virus diffuso da quattrocento anni, più letale del corona, più infido di ogni altra malattia: il razzismo. Il continente della democrazia, sviluppatosi in ritardo (per via del colonialismo europeo) ma ciononostante ritenuto l’emblema della pacifica uguaglianza, in verità vive in una frattura atavica, quella tra neri e bianchi. Oggi entrambi convivono, eppure basta una fiammella per far esplodere la miccia.
Le proteste degli ultimi giorni ci hanno aperto gli occhi sul virus di George, afroamericano il quale, in otto minuti, è passato dall’essere colpevole di resistenza a pubblico ufficiale, a vittima di omicidio. Un passo che, di norma, non è così breve.
Il Covid-19 ha decimato gli USA, è vero, ma passerà prima o poi.
Il razzismo, invece, è un vulcano quiescente: dorme, talvolta russa e si fa notare, allora si sveglia, desto e assassino. Trump spera di uscire dal corona nel migliore dei modi possibile, per far leva sulla gestione della pandemia in vista delle prossime elezioni.
Attento, Donald, perché è il colore della pelle che decide l’esito della tua campagna elettorale. La gente l’ha stampato sul corpo, quasi non se ne accorge tanto sembra scontato, ma quello conta. Decide il momento, fatale, in cui il virus di George si sveglia dal sonno.