Il Movimento 5 Stelle, quando capì che era giunta l’ora di modificare la definizione di “anti-casta” che si era attribuito all’inizio, togliendo la negazione, decise che un avvocato dovesse essere il proprio leader.
Lo propose a Mattarella, si trovarono i numeri della fiducia e Giuseppe Conte, legale pugliese pronto per fare ingresso nel mondo dell’aristocrazia politica, entrò dalla porta principale: due mandati da presidente del Consiglio.
Negli ultimi giorni, però, l’avvocato del popolo, che a forza di compiacersi del ruolo che aveva raggiunto ha dimenticato i “cavilli del mestiere”, è stato messo all’angolo dalla giustizia del tribunale di Napoli, che a seguito di un ricorso l’ha sospeso dalla carica di presidente del Movimento. In agosto alcuni iscritti sarebbero stati esclusi dal voto per modificare lo statuto ed eleggere Conte alla carica di presidente. Quindi oggi è tutto da rivedere.
Ciò accade nel momento più critico del partito: quella che era finora una guerra sotterranea tra Di Maio e Conte, dopo il Quirinale è emersa palesemente. Tant’è che Di Maio si è dimesso dal comitato di garanzia.
L’ironia amara della sorte ha voluto che Conte sia stato messo alle strette da un ricorso da parte di un manipolo di elettori, dissidenti, che una volta avrebbero composto quel “popolo” a cui l’ex premier guardava con fiducia. Che oggi invece gli si ritorce contro.
D’altronde, chi nasce incendiario non può trasformarsi in pompiere. Lo zoccolo duro di elettori del Movimento sta scomparendo, ma era inevitabile che accadesse: o Grillo leader a vita, o ascesa e poi crollo. Una massa di rivoluzionari, quando indossa la camicia e parla come chi codesti ribelli volevano abbattere, non può durare a lungo.