Verba manent: il medico di base per i senza fissa dimora è una vittoria della civiltà

Il Parlamento, quel luogo di deputato al nobile mestiere di chi serve lo Stato e i cittadini, legislatore nazionale che dovrebbe essere sempre al passo coi tempi, non è soltanto il posto dove (troppo spesso) gli eletti si rendono protagonisti di sceneggiate pietose. La rissa di qualche settimana fa ne è un brutto esempio. In quel luogo, invece, talvolta succede anche qualcosa di buono: è il caso della proposta di legge approvata l’altro ieri alla Camera, all’unanimità, per sperimentare il medico di base per i senza fissa dimora. 

Quattordici città metropolitane scelte per iniziare un percorso di civiltà, ovvero far esercitare un diritto, costituzionalmente garantito, anche a chi vive ai margini della società. Gli “homeless”, coloro che per mille ragioni si sono trovati in condizioni di povertà e indigenza; si tratta spesso di persone in condizioni precarie di salute, ma anche, a volte, con un difficile quadro clinico-psichico. La società si dimentica di loro, perché non reggono i ritmi veloci del quotidiano, perché sono considerati inutili. Senza casa né lavoro non hai dignità, non sei nessuno. Questo assunto non tiene conto di un dato di importanza fondamentale: la dignità è un valore che precede le condizioni sociali e le etichette della civiltà moderna. Se non ci si chiede il motivo per cui così tante persone (circa 120.000 sul territorio nazionale, delle quali la metà verrebbe tutelata dalla nuova legge) finiscono in certe situazioni, risulterà sempre normale guardare agli emarginati con menefreghismo. E attenzione: costoro non sono soltanto i “clochard”, dalla barba lunga e col piattino in mano pronto a ricevere un’elemosina; tra quei 120mila rientrano anche padri separati che vivono in macchina, disoccupati che si ritrovano senza nulla, donne che scappano dalla propria dimora perché vittime di violenza. Pensandola così, la prospettiva sugli homeless cambia, giacché il criterio di inclusione si allarga altresì verso i casi che possono essere più vicini alla nostra realtà. 

Ben venga, quindi, questa legge in cantiere, della quale il PD, con Marco Furfaro primo firmatario e alfiere della battaglia, si può onorare di aver quasi portato a casa il risultato. Basterà far iscrivere nei registri delle ASL territoriali chi avrà necessità di ricevere cure, per avere accesso alle prestazioni del servizio sanitario, tra cui anche la medicina preventiva, i consultori e le vaccinazioni. Finora, invece, chi è sprovvisto di residenza può accedere soltanto al pronto soccorso per le emergenze. Il motivo? Un passaggio della legge 883 del 1978 che stabilisce che “chi utilizza il Servizio sanitario nazionale deve essere iscritto in appositi elenchi aggiornati periodicamente presso l’unità sanitaria locale nel cui territorio hanno residenza”. 

Arrivino da queste colonne gli auguri per un Parlamento più inclusivo, avverso alle disuguaglianze e unanime nell’affrontare battaglie di civiltà come questa. Con leggi eque e politiche egualitarie, non solo si accelera la struttura amministrativa, ma si trasmette anche affidabilità nei confronti del lavoro svolto. Basta poco, per riportare la gente alle urne. Basta anche iniziare con una legge così. 

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