Napoli – Inter ha messo in secondo piano lo spettacolo che lo sport dovrebbe esclusivamente offrire nelle sue manifestazioni, per lasciare spazio a una polemica sul razzismo nei campi di calcio. Acerbi è stato squalificato perché avrebbe insultato l’avversario, Juan Jesus, ma il giudice federale ha chiarito che la situazione non si è sviluppata in questo modo e, dunque, ha revocato la squalifica. È sorto un precedente enorme nel mondo delle decisioni calcistiche.
Non interessa, in questa sede, un resoconto dei fatti, piuttosto importa capire cosa stia alla base di un’assoluzione del genere, al netto di una sentenza che, ovviamente, va rispettata. Nel dispositivo si legge che le espressioni di Acerbi seppure “non disconosciute nel loro tenore offensivo e minaccioso, avevano un contenuto discriminatorio percepito solo dal calciatore offeso”, ossia: tutti hanno capito che Juan Jesus è stato insultato, ma solo lui ha percepito di esserlo stato per il colore della sua pelle. È una sentenza che ha dell’assurdo, per diverse ragioni. In primo luogo, perché il tema della violenza negli stadi non riguarda solo le tifoserie (paradossalmente, quelle ormai si sono calmate), quanto piuttosto gli stessi calciatori. Che adoperano violenza verbale come se nulla fosse, offrendo al pubblico, d’età trasversale, degli esempi eticamente orridi. E quella violenza, troppo spesso, non si limita alla mala-parola, ma trasborda gli argini della razza, diventa strumentalizzazione della razza, arma di offesa, pistola fumante di odio. “Negro”: perché? In disprezzo a chi? Con quale fine?
In secondo luogo, laddove una decisione arbitrale può essere dimenticata, una sentenza come quella favorevole ad Acerbi segna un tratto indelebile, fa giurisprudenza. D’ora in avanti, sarà metro di giudizio e termine di paragone con casi simili che i giudici saranno chiamati a disciplinare. E anche se ravviseranno offesa intrisa di razzismo, per loro sarà più difficile condannare, perché il caso Juan Jesus potrà essere portato d’esempio dall’offensore: perché in quel caso no, e nel mio sì?
Soprattutto, teniamo sempre a mente che, oltre al macroscopico business che ruota globalmente intorno al pallone, si tratta di uno sport che interessa due categorie di soggetti: i professionisti, che lo trattano come lavoro, e gli spettatori, verso i quali arriva un messaggio puramente passionale. Tralasciando che anche i professionisti, come tutti gli altri in ogni categoria, dovrebbero essere mossi da codici etici ben precisi (se un avvocato chiama “negro” un magistrato di colore in aula, probabilmente viene condannato e radiato dall’albo), gli spettatori fruiscono solo per passione. E spesso sono giovanissimi. Se non è lo sport a lanciare, per primo, messaggi positivi, cos’altro spinge lo spettatore a migliorarsi?
Potremmo riassumere: ci sono gli acerbi, quelli che mancano sono i maturi.