Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, è al centro del vortice che è piombato sul governo. Torturatore e reo di gravissimi reati in Libia, il 6 gennaio ha iniziato il suo giro per l’Europa: Inghilterra, Belgio, Germania e infine Italia. Ohibò, proprio quando sta per entrare in Italia, la Corte dell’Aja emette il mandato di arresto internazionale. “È un caso”, direbbero i fiduciosi. Ma a noi sembra più un voler lanciare carbone bollente addosso al governo italiano.
I fatti sono noti, oltre che giuridicamente complessi. A Giorgia Meloni, Carlo Nordio, Alfredo Mantovano e Matteo Piantedosi sono arrivati degli avvisi di garanzia; ops, “atti dovuti” precisa l’ANM, sostenendo che il governo sta strumentalizzando la faccenda. Il tema è tanto giuridico quanto politico. Sul primo aspetto, la nostra indole rigidamente garantista ci impone un diktat: attendiamo almeno i sei mesi per la conclusione delle indagini. Oltre la rigidità impostaci, però, la situazione stona un po’, soprattutto visto il periodo. Il governo, infatti, sta accelerando il passo su una delle riforme più sbandierate e più attese: quella della giustizia. In queste colonne, nei mesi precedenti, abbiamo speso parole su parole per indicare come questa sia la riforma più urgente. E l’abbiamo fatto quando Meloni, apparentemente, tergiversava. Oggi, invece, con la separazione delle carriere già avanti nell’iter, la magistratura torna a tuonare, e lo fa con un rombo potentissimo, prendendo a pretesto un caso delicato e non privo di responsabilità da parte del governo.
E qui giungiamo al secondo punto, forse il più importante: le responsabilità politiche. Al netto del mandato probabilmente emesso ad hoc, pur essendo una situazione difficile da gestire, nella realtà dei fatti non si può rispedire con volo di Stato un criminale internazionale nel suo Paese di origine, con la consapevolezza che resterà impunito e proseguirà nelle sue malefatte. Magari c’è dietro un accordo con i poteri oscuri libici, riguardo alle partenze; dietrologie che possiamo supporre – abbiamo il diritto di farlo – ma non possiamo in alcun modo approfondire e conoscere. Perciò, la vicenda è colma di misteri, com’è giusto che un caso internazionale, tra servizi segreti e politica, sia. Tuttavia, lo ribadiamo: l’errore è politico ed è evidentissimo.
Che poi Giorgia Meloni, sulla cresta dell’onda dei consensi e abilissima in fatto di comunicazione, stia utilizzando la diatriba storica tra politica e magistratura per virare la discussione su altro, fuori dai binari del caso politico, è comprensibile. In fin dei conti, abbiamo appreso degli avvisi di garanzia tramite i suoi canali social, non mediante un’informativa democratica.
Siamo onesti, prima di tutto con noi stessi: la giustizia a orologeria c’è. C’è sempre stata. E non si risolverà mica con la riforma della giustizia! Sarà, però, un passo in avanti per ripulire la cosa pubblica da oscurità che non giovano a nessuno.
Condivido appieno le tue argomentazioni. Aggiungo una considerazione storica: la vicenda mi ricorda quella di Craxi-Sigonella. Anche in quel caso un pasticcio italiano consentì la fuga di un pericoloso terrorista. Ma, stranamente, non vi furono implicazioni giudiziarie e non fu certamente quello l’episodio capace di minare la leadership di Craxi.