Verba manent: andare in guerra, andare in pace

L’Iraq è crudo, non risparmia nessuno. È terra di padroni, despoti sanguinosi che non riconoscono leggi ma le dettano, a modo proprio. C’è stato Saddam Hussein, che fu condannato per crimini contro l’umanità; oggi lì si aggira l’ISIS, lo spettro degli anni ’10 del Ventunesimo secolo. Territori e popoli senza speranza.

In Iraq vengono mandati migliaia di militari in missione di pace.

Guerra e pace, un binomio che evoca memorie letterarie, ma altresì incredibilità.

Marco, Paolo, Andrea, Emanuele e Michele sono andati in guerra per portare la pace, costretti dal dovere e dallo spirito patrio. Sono incursori, uomini scelti per combattere una battaglia a favore del mondo. Uomini normalmente a volto coperto, celati dietro il loro lavoro, omologati per riservatezza. Si sa che esistono, grazie al Cielo, ma non si sa chi sono. Ebbene, stavolta, a seguito della tragedia che li ha colpiti, gli è stata fatta togliere la maschera. E hanno preso vita, perché la gente deve sapere il nome degli eroi e deve vederne il viso, per ricordarli.

Quattro di loro torneranno a casa con qualcosa in meno, che sia una gamba o una falange. È un sacrificio che rientra nei rischi di un mestiere che compie chi va in guerra per portare la guerra.

Diventa un martirio, tuttavia, quando il mestiere è andare nell’altrui guerra per portare la propria pace. Continuare a illudersi che con il mitra si vada a far sorgere l’arcobaleno in Oriente non solo è inutile, ma anche mortale. Innocentemente mortale.

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