Un nuovo Louvre ci vorrebbe, ma in Italia. In questo modo Flavio Briatore scioglierebbe il problema della grande diaspora del nostro patrimonio culturale e offrirebbe la soluzione più idonea, secondo la sua grande esperienza imprenditoriale, per la scomoda accessibilità turistica alle sedi ospitanti la nostra cultura.
Insomma un nuovo Prado che raduni tutte quelle “robe sparse”, come lo stesso imprenditore piemontese ha affermato durante l’ultimo G7 sul turismo, e che eviti il fastidio sia per noi italiani di scapicollarci qui e lì per accrescere la Ricerca, sia per i turisti di viaggiare per tutte le 20 regioni.
Per Briatore è sbagliato concepire il nostro patrimonio soltanto nell’accezione politica di “volano dell’economia”, anche perché così andrebbe a confliggere con la missione di formazione dei nostri professionisti della cultura e con la crescita della società civile.
“Tutte le robe che abbiamo in cantina le facciamo vedere e le facciamo pagare” dice Briatore nell’intervista rilasciata al G7. E continua: “Perché non si fa un museo come c’è al Prado, in cui quando entri dentro c’hai tutto, cioè non devi andare un po’ di qua un po’ di là, un po’ qui un po’ lì. Avere un museo unico dove racchiude tutto quanto”.
Per il famoso imprenditore non c’è molto da discutere o da riflettere. È così semplice e lineare la proposta che non sembra nulla la sconforti. Forse perché è sin troppo lineare da risultare scivolosa ovunque ed esule dalla stessa natura con cui s’è creato, trasmesso e conservato il nostro complesso repertorio artistico e culturale.
Da una priore contraddizione si deve far cominciare l’inadeguatezza delle parole di Briatore, e cioè dal fatto proprio di affermare in primis che la componente economica e marketistica della politica non deve plasmare lo stato dell’oggetto bene culturale, per poi negare quanto detto in favore di una espressa economia di gestione e pubblica fruibilità. Si rivela allora una economia che conduca l’organo culturale verso l’adattamento al corpo turistico.
Sebbene non siano una sorpresa i nuovi fenomeni che crescono diffusamente in rete per i quali la cultura diviene una suite alla moda turistica, (conseguenza della quale è l’attuale passerella del tutto indecoroso presso la Fontana di Trevi), se davvero si desse ascolto alle parole di Briatore, il passo dal quale si potrebbe fare la spesa come al supermercato presso il museo, sarebbe breve. Ma forse solo così la cultura potrebbe divenire davvero “utile” ai visitatori e alle stesse istituzioni.
Chi andrà a dire a Briatore che la Francia ha ereditato il Louvre come accentratore culturale proprio dalla legge Chaptal che ha cercato di introdurre una diaspora del patrimonio parigino attraverso la suddivisione dipartimentale della intera Francia? E già che si trova a parlarne, chi gli dirà sia a lui che a Calenda che l’Italia è rimasta sparpagliata dei suoi Raffaello e Tiziano proprio perché la sua ricchezza straripava da ogni “qui e là” tra le svariate regioni, e non solo da un unico spazio come lo è principalmente tuttora l’Hermitage di San Pietroburgo?
La bellezza di un patrimonio come quello italiano, è facilmente definibile scomodo e inaccessibile se non si dispongono gli strumenti politici degni di sorreggerne la complessa statura.