La recente chiusura di tutti i social del Presidente americano uscente dimostra come sia necessario ormai un dibattito sui social come servizio pubblico
È come in qualche commedia coreana. In poche scene si può ribaltare completamente la situazione e trovarci di fronte a eventi imprevisti e inaspettati. Come in quei film, in pochi giorni abbiamo assistito a tutto e il contrario di tutto: la caduta di Trump e i suoi tentativi di ribaltare tutto per via legale, accuse e controaccuse, assalti alle istituzioni e ritorsioni social dei profili personali. Houston, abbiamo un problema. Ma se in America la situazione precipita, più in generale la ‘questione social’ lascia una sensazione di malessere. Una sensazione che qualcosa non vada.
Ce ne accorgiamo mentre apriamo uno smartphone. Sempre di più questo strumento di socialità, di condivisione della propria vita nei confronti di amici e sconosciuti, si sta trasformando in qualcosa di più. Lo si è notato nelle ultime elezioni, sia italiane che internazionali: oggi chi vuole fare politica non può snobbare questi canali. Anzi, ne deve fare una pietra angolare della propria campagna. Il pericolo c’è, eccome: si possono mobilitare folle di figure brancaleonesche che assaltino le istituzioni per esempio. Ma dai social si deve passare per forza. Qui infatti passano i flussi di opinione. Qui si formano le coscienze.
Sempre di più però si avverte che il mezzo non rispecchia affatto una visione democratica del dialogo. Ricordo Facebook che censura i gruppi (celebre il caso Casapound). Penso a Twitter che decide, secondo criteri arbitrari, quali siano i post che Trump può pubblicare o no. Non c’è quindi spazio per tutte le opinioni come dovrebbe essere.
Non vorrei che si scendesse nel banale: stai con Trump o contro Trump?. Qui non c’entra. Pur non condividendo nulla del, ancora per pochi giorni, Presidente uscente americano, non si può rimanere perplessi di fronte a una palese violazione della libertà d’espressione. Se Trump inneggia alla rivolta può democraticamente farlo. Ne pagherà, democraticamente, le conseguenze in un’aula di tribunale o con l’esclusione della politica attraverso un democratico impeachment.
E chi difende questa censura affermando il fatto che le piattaforme social siano attività private e, come tali libere di scegliere cosa fare, non ha presente minimamente il concetto di ‘servizio pubblico’. Quando negli anni ‘80 si affacciarono diverse televisioni commerciali, si discusse a lungo sul tema: pur private, non erano da considerarsi comunque di servizio pubblico dato l’enorme numero di spettatori? Dibattito questo, che per i social ad ora non è stato neppure accennato. Non sorprenda che per accusare i social, chi scrive usi un social. Non è un controsenso: si può riconoscere i benefici di uno strumento pur non condividendone ogni aspetto.
È un pericolo che cresce anche in Italia. Il ritardo rispetto all’estero è dovuto solo al ritardo della digitalizzazione del dibattito politico. Ce ne accorgeremo nelle prossime elezioni senza dubbio. Solo alcuni politici l’hanno capito e si sono portati avanti da tempo, come Salvini. Quando il dibattito si sarà spostato prevalentemente sui social, dovremmo affrontare anche noi il tema.
Rimbombano allora assillanti domande. Perché i social si arrogantano il ruolo di censori delle opinioni? Chi l’ha deciso? E chi controlla questi ‘controllori’ improvvisati e illegittimi? Le questioni messe sul piatto, se sembrano gravi adesso, lo saranno sempre di più nel futuro. Man mano che i nativi digitali saranno la maggioranza della popolazione. Allora questa pastoia diventerà l’unica realtà conosciuta e accettata. Con il pericolo di perdere l’individualità del pensiero, perfino il più opinabile, ma prezioso per il dialogo democratico. E rischiando così di diventare un pensiero manipolabile. Un film già visto.