Marco Missiroli è l’autore di Avere tutto, un testo che sembra fare da contraltare al notissimo Atti osceni in luogo privato, non fosse altro per il carattere tutto intimo che l’autore dichiara caratterizzare la sua opera. A mediare l’incontro, tenutosi nella Sala Rossa del di Torino, Domenico Starnone.
La discussione si apre con una sua lucida considerazione: uno scrittore non è mai lettore di sé stesso ma è, invece, condannato a essere un suo eterno rilettore (un perfezionatore minuzioso e incontentabile, si potrebbe dire). Lo scrittore, quando legge un libro non suo, ha per sua sorte un unico metro di giudizio: l’invidia. Starnone si dichiara ossessionato dall’invidia che, nel caso specifico di Missiroli, si riferisce soprattutto alla maestria con la quale l’autore ha scritto «dialoghi straordinari», vera punta di diamante di Avere tutto e – aggiungerei – della maggior parte della produzione artistica di Missiroli.
I dialoghi, nel romanzo, puntellano la tristezza di un evento cardine: il ritorno di Sandro a casa dei genitori, Nando e Caterina, in occasione del compleanno del padre settantaduenne. Si ripercorre, dunque, in chiave tutta moderna la narrazione del Figliol prodigo, dove l’equilibrio padre-figlio appare continuamente sull’orlo di una crisi insanabile o di un rumoroso collasso, entrambi giunti (per motivi differenti) allo strenuo delle loro umane forze. La drammaticità di questo ritorno suscita in Starnone quell’ormai consueto sentimento di invidia che, però, è un sentimento da rivalutare, poiché l’invidia “buona” scatta quando si ha una passione.
Si tratta allora di “invidia letteraria”, che null’altro è se non la scoperta che un altro scrittore sa fare una cosa che, allo scrittore-lettore, non è riuscita. L’invidia passa dall’essere fugace sentimento all’essere carnale riappropriazione di un tutto non meglio identificabile; è l’invidia – sostiene Missiroli – che ci spinge a voler avere tutto, incapaci di distinguere, nel calderone dell’esistenza, il Bene dal Male.
In questa inconsistenza di ideali ecco che sembra quadrare perfettamente l’epigrafe, presente in calce nel romanzo di Missiroli, che recita così: «Io vivo di ciò che gli altri ignorano di me». L’origine profonda dell’Io, la nostra personale identità, è la causa di tutte le cose (un primo motore immobile di kantiana memoria) che fa da Madre al fiorire incessante di una nuova versione di sé. Missiroli ama le metafore tanto che parla di un bassorilievo presente in ognuno di noi e la cui rappresentazione emerge da un indistinto sottobosco nella piena inconsapevolezza dell’Io: «Mi resi conto che ero fatto per la maggior parte di cose segrete, ma bisogna avere il coraggio di produrre un’infrazione sull’oscurità.»
Questa volta a essere tirato in ballo è Eraclito che, come ricorda Missiroli, sosteneva che «Nascimento ama nascondersi». Come fare, allora, per ricongiungersi con l’oscura origine remota di tutte le cose? Affidandosi al non sapere – sostiene l’autore – in modo tale che sia la lingua a guidarti.
«Ricordo che una volta mi hai detto che scrivi sempre alla prima persona singolare», afferma Missiroli, rivolgendosi a Starnone. «E quando ti domandai il perché di questa scelta, tu mi rispondesti che alla terza persona non riuscivi a crederci; ora anche io ho scritto alla prima persona perché non temo più la verità.» Perfino un grande linguista come Benveniste, riflette Starnone, sosteneva a buon diritto, che la terza persona non esistesse dal punto di vista pronominale.
Altri temi fondamentali del romanzo sono il ballo, una passione comune di Nando e Caterina, sua moglie, che entra in un conflitto tra titani con un polo complementare e opposto, il gioco – passione malata e corrosiva del figlio Sandro. Il vizio del gioco si fa strada silenziosamente nella sua vita, procedendo in punta di piedi: a poco a poco scopre, come in un’epifanica rivelazione, che può anche sfidare il gioco stesso e azzardare, in un ciclo senza fine, la possibilità di una vittoria. Il padre di Sandro, dal canto suo, azzarda pochissime volte nell’arco della narrazione, eppure qualcosa li lega: un furto di cui si macchiano entrambi, sebbene in misura e modalità diverse; Sandro ruba un portachiavi e Nando, invece, un paio occhiali.
Persino il furto ha, tuttavia, perfettamente senso: anche nel ballo, così come nel gioco, c’è la necessità di spingersi all’azzardo sconosciuto, all’origine prima e oscura del Sé. «Per ballare ci vuole azzardo», sostiene Missiroli. E quanto coraggio ci vuole per esporsi in tutta la propria corporeità? «Bisogna muovere il corpo nello spazio, nel rumore, nelle regole e nelle persone.»
E se poi ci si ferma a riflettere il ballo è più insidioso del gioco perché costringe il ballerino a dire la verità, elude ogni possibilità di barare, di scegliere un percorso eslege rispetto alle comuni regole del ballo stesso. Il ballerino ha sempre in mente il desiderio di battere la possibile disarmonia dei movimenti con l’armonia pacifica delle movenze. Al contrario il giocatore più accanito (ed emerge, qui, il passato a tinte fosche di un Missiroli giocatore seriale di poker, di cui i suoi lettori erano già venuti a conoscenza) tenta di rubare l’armonia del mondo per incanalarne le forme nella disarmante disarmonia del sé. Ecco, allora, che Avere tutto è «un libro sui bluff», un gioco all’ultimo sangue: ma se nel gioco si va avanti fino alla morte vera e propria, la fatica del ballo si spinge fino a un attimo prima, senza distruggere mai del tutto.
In ultima analisi Avere tutto è un libro sulla morte. È la morte dei genitori che spalanca le porte al senso di mortalità dei figli e la morte, nel romanzo, fa sì che anche Sandro poi si senta mortalissimo. In questo – dichiara l’autore – non c’è finzionalità. Ma cosa sono, in questo ordine di idee (e nella letteratura tutta) il Vero e la Verità? Fu, per primo, Ponzio Pilato a domandare (e forse a domandarsi) che cosa fosse la verità. La risposta è, tuttavia, contenuta nella domanda stessa, ove non decada nel momento ultimo della narrazione.
La lingua, a cui Missiroli dichiara di essersi completamente abbandonato, si profila e si struttura in tre lessici differenti che si accavallano e si accompagnano di pagina in pagina: il lessico dell’orto (assorbito dal lavoro del nonno contadino), il lessico ragionato e studiato (quello del ballo), il lessico della vita, “tuo nonostante” (cioè quello del gioco che Missiroli ha acquisito durante la sua giovinezza da giocatore). È in questo scarto che si produce lo squarcio letterario, innescando così il meccanismo di ricerca dell’origine nell’oscurità: «Avere tutto è un libro “rotto” perché i tre lessici producono pertugi di lettura» e chissà, sostiene Missiroli, se si possa ancora parlare di Postmoderno. Forse c’è un’urgenza più stringente, cioè quella di «non poter più vivere in un tempo in cui tutto viene distrutto e poi ricostruito senza sosta.» Preservare, per avere tutto.