The Legend of Ochi di Isaiah Saxon: Aesthetic rétro, cuore Gen Z

L’A24 si cimenta in un aggiornamento della parabola del diverso tra tradizione e immagini mozzafiato

C’è qualcosa di sincero nell’approccio ingenuo del film a un racconto già sentito altre mille volte. Quel racconto del bambino/a emarginato/a che instaura un legame con una creatura incompresa oppure quello della fuga da un mondo adulto corrotto, violento o semplicemente cieco. Le produzioni della Amblin’ di Steven Spielberg, i mondi di Myazaki fino al cinema di Tim Burton e (certo) Wes Anderson sono modelli e tradizioni cinematografiche che The Legend of Ochi omaggiacon dolcezza e potenza intellettuale. Eppure, nonostante il potenziale visivo e narrativo, il film dell’esordiente Isaiah Saxon fatica a imporsi come qualcosa di più di un bellissimo pastiche.

Da qualche parte nel Mar Nero, nell’isola remota di Carpathia coesistono ruderi medievali, tecnologia post-sovietica e relitti culturali pop, tradizioni fiabesche e patriarcato moderno. La giovane Yuri (Helena Zengel), si ribella all’autorità incarnata dal padre Maxim (Willem Dafoe), fanatico cacciatore degli ochi — creature simili a gremlin e Grogu di The Mandalorian. Quando Yuri salverà un cucciolo ferito, inizierà un viaggio per riportarlo alla sua comunità. Un’ avventura in cui i due attraversano territori interiori e geografici che evocano traumi famigliare e conflitti generazionali. A volte sono proprio le nostre differenze a unirci.

The Legend of Ochi è un film che inciampa molto spesso. La struttura è prevedibile e lineare, i personaggi bidimensionali. Il viaggio di Yuri e del cucciolo di Ochi non ha una vera forma, non ha ostacoli o colpi di scena. Le idee narrative sono troppo rarefatte e i toni incerti (è dark? è arthouse? è per famiglie?). Ci sono tante immagini mozzafiato ma manche l’immaginario perché quello si costruisce con i conflitti e le caratterizzazioni.

Tuttavia, nella dialettica tra tradizione tribale e modernità la sceneggiatura prova a fare qualcosa di più profondo. Il villaggio è l’umanità che ha perso la capacità di immaginare alternative. Gli ochi, inizialmente descritti come parassiti, sono i custodi di un equilibrio naturale che il mondo umano ha compromesso. In questo senso, il film si carica di una valenza ecopolitica interessante: la creatura non è solo il “diverso” da accogliere, ma anche la natura da riconoscere come qualcosa di cui aver cura, non come oggetto di dominio o sterminio. Interessante ma già visto (letto e sentito).

È lo stile visivo che colpisce: un’ode all’artigianato cinematografico in un’epoca ormai dominata dalla sintesi algoritmica. Contrariamente alle accuse social, il film non deve nulla all’AI. Il tutto è frutto di sei anni di lavoro meticoloso, in cui pupazzi, animatronica, matte painting e animazione tradizionale sono stati orchestrati con da un team di effettisti che sembrano usciti direttamente dalla scuola di Jim Henson e Ray Harryhausen. Forse quei colori saturi, la profondità di campo ridotta sono stati fraintesi come “sintomi” di un intervento AI?

The Legend of Ochi è bellissimo da vedere, stimola il pensiero ma lascia indifferente il cuore. Un’opera prima imperfetta di un autore promettente, che dimostra come il cinema fantastico sia lo spazio per l’utopia e la resistenza. Produzione dell’A24 dal budget basso (si dice 10 mln) che non faticherà a creare profitti. Perché cinema così in Italia non lo facciamo?

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