The Brutalist di Brady Corbet smembra l’American Dream

Un racconto ingombrante, obliquo e ipnotico sullo smembramento dell’American Dream

The Brutalist, terza opera di Brady Corbet come regista, dopo The Childhood of a Leader (2015) e Vox Lux (2018), mette a nudo l’anima frammentata dell’America, un paese che si definisce terra delle opportunità ma che rivela una realtà intrisa di razzismo, esclusione e ipocrisia. La storia del fittizio architetto brutalista László Tóth (Adrien Brody), di origine ungherese sopravvissuto all’Olocausto e in cerca di un nuovo inizio nel dopoguerra americano, è un atto politico e una riflessione critica sulla storia americana.

Tóth, separato dalla moglie Erzsébet (Felicity Jones) e segnato dal trauma del nazismo, arriva negli Stati Uniti con la speranza di costruire, letteralmente e metaforicamente, una nuova vita. Il cielo accecante sopra Ellis Island, la Statua della Libertà capovolta come a testa in giù è il primo impatto visivo che ha con l’America Toth, uomo in lotta non solo con il trauma del passato ma con le promesse non mantenute del nuovo mondo. La sua traiettoria professionale e personale diventa il simbolo di un paese incapace di accogliere l’altro senza sfruttarlo o trasformarlo in strumento di autocelebrazione. La fortuita commissione ricevuta da Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un magnate vanitoso che si atteggia a mecenate progressista, si rivela non un’occasione di riscatto, ma un ulteriore esercizio di potere colonialista: un ricco uomo bianco che strumentalizza il talento di uno straniero per il proprio tornaconto estetico e culturale. Laszlo affronta eroina, povertà, violenza e alienazione culturale, e la sua ricongiunzione con la moglie e la nipote Zsofia (Raffey Cassidy) è tutt’altro che una redenzione. Quanti uomini e donne si sono trovati nella posizione di Laszlo? Troppi per essere contati.

Corbet è solito realizzare film enigmatici che richiedono pazienza. Infatti, strutturato come un’ouverture, due atti principali e un epilogo, con un intervallo di 15 minuti, il film raggiunge un equilibrio straordinario proprio grazie ad uno stile visivo austero e una narrazione non convenzionale. Momenti decisivi accadono fuori campo, dettagli fondamentali si insinuano in dialoghi quasi sussurrati, e il senso complessivo del film si costruisce a posteriori, come una riflessione sul tempo e sulla memoria. È un cinema per un pubblico che non teme di essere provocato, intellettualmente e moralmente.

Sono due i grossi conflitti che dilaniano l’architetto protagonista. Il primo, romantico, con la moglie Erzsébet, una coppia spezzata dal trauma e costretta a confrontarsi con un paese che non li accoglie realmente. La donna, debilitata fisicamente e spiritualmente dalla fame e dalla guerra, rappresenta la vulnerabilità dell’immigrato, mentre l’uomo incarna la rabbia e l’orgoglio di chi cerca di costruire un futuro, ma si scontra con muri invisibili fatti di pregiudizi e razzismo. Il secondo, dal cuore politico, con il mecenate Harrison, un autocratico a cui László finirà per vendere l’anima per una libertà che non esiste ma che è abuso e possesso. Simbolo di questo rapporto di potere è una sequenza visivamente sbalorditiva e quasi mitica: una allegoria visiva in cui l’angosciato Lazlo e il sinistro Harrison visitano la famosa cava di marmo bianco di Carrara in Italia, dove Michelangelo scolpì la Pietà. Le architetture brutaliste, con le quelle geometrie spoglie e blocchi di cemento, sono complesse e poche consolatorie quanto un paese costruito su fondamenta di violenza, alienazione e controllo. Ma forse è possibile trasformare i peggiori traumi in qualcosa di sublime.

The Brutalist è un atto d’accusa contro un’America che si vanta di essere la patria del progresso, ma che perpetua cicli di esclusione e sfruttamento. Corbet intreccia i temi dell’immigrazione, del potere e dell’identità culturale con una riflessione sulla stessa natura del cinema e dell’arte, chiedendosi chi abbia il diritto di raccontare le storie e di lasciare un segno nel paesaggio – architettonico o culturale – di una nazione. Il respiro è quello del cinema di F.F. Coppola, la potenza quella de Il Petroliere di P. T. Anderson. Audace, in contrasto con la retorica narrativa dell’epopea americana The Brutalist spinge a guardare negli angoli bui dell’American Dream. László Tóth non è solo un personaggio, ma un simbolo: un testimone di un passato che l’America vuole dimenticare e un monito per un presente in cui i confini si ergono più alti che mai.


il trailer del film

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here