Durante una campagna elettorale fatta di accuse bieche, propaganda distorta e cavalli di battaglia invecchiati male, tutto era prevedibile fuorché un’accusa di molestie sessuali perpetrata ai danni di uno dei maggiori candidati del panorama politico. È il caso di Matteo Richetti, presidente di Azione, che da giovedì è coinvolto in una tempesta (mediatica) perché accusato di molestie da parte di una donna anonima, rivoltasi al giornale Fanpage per denunciare i fatti.
Il giornale in questione ha riportato un video di una presunta vittima che tacciava un uomo, poi rivelatosi Richetti da una foto parzialmente oscurata, ma riconducibile a lui, di essere colpevole di molestie anche fisiche nei suoi riguardi. Il giorno dopo, venerdì, Azione ha diffuso un comunicato stampa per confermare che si tratta di Richetti e, tuttavia, per respingere le accuse. Si tratterebbe, infatti, di un caso vecchio, il quale il senatore aveva già denunciato ritenendo la donna colpevole di atti persecutori nei suoi confronti. Ovviamente la versione della donna, guarda caso soltanto oggi riportata in luce, e narrata da Fanpage, è diversa. Infine, fonti della polizia insieme a una ricerca del giornale Domani sostengono che la donna (attivista e attrice) in questione sia L.M.R. (sarebbe scorretto pubblicare il suo nome, prima ancora di una conferma anagrafica, ndr), con una condanna in primo grado per calunnia, poi prescritta, e un’altra per stalking verso il suo ex compagno.
Il tema, qui, non è in gran parte legale, poiché nelle sedi opportune verranno individuate eventuali responsabilità penali. A margine della riflessione legale, comunque, occorre rilevare che la donna è rimasta anonima nelle sue dichiarazioni – in verità prassi comprensibile e frequente – e che soprattutto si è rivolta a un giornale e non a un tribunale; mentre Richetti ha denunciato alle autorità competenti. Con quale fine la donna si è affidata a un giornale come Fanpage, noto già in passato per inchieste lanciate nei mesi elettorali e poi abbandonate? Ed eminentemente appare palese la domanda di fondo: perché denunciare a un giornale e non a un tribunale? Si crede forse che l’attività giornalistica possa sostituire quella inquirente della magistratura?
Risulta chiaro che in Italia frequentemente vengono montati dei casi che suscitano più clamore mediatico che effetti reali. Intanto, però, quel clamore si diffonde; e se ben argomentato si radica altresì nelle idee di lettori, indecisi, ascoltatori e disinformati. Consolidatosi, monta odio e disprezzo verso persone non ancora giudicate da chi è deputato a farlo. Si invoca giustizia, si minacciano tribunali e cause, per poi credere a video e racconti superficiali. Per fermare la macchina del fango che in Italia non resta mai, purtroppo, a corto di carburante, non servirebbe bloccarne l’avanzata. Basterebbe che i destinatari di certi messaggi si informassero meglio e adoperassero criterio nel sentenziare verità basate sul nulla. Per di più, se si ribellassero pubblicamente al marcio del sistema propagandistico/mediatico, probabilmente l’Italia progredirebbe un po’. Sarebbe comunque piena di problemi, ma se ne sarebbe tolta uno non di poco conto.