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Ad animare una rubrica sul legame tra editoria e femminismo non può che esservi una volontà forte di ri-raccontare i racconti fatti da altre e ri-raccontarli, in modo da farne risuonare, insieme alla significatività artistica profonda, le condizioni di invisibilità a cui essi sono stati e sono relegati, e rispetto a cui essi non possono che svelare la loro carica eversiva: quella di presenze che, pur nell’oppressione, continuano a parlare e a narrare. In questa reduplicazione del racconto, del resto, il genere femminile – inteso come costrutto socio-culturale e non in senso essenzialistico – ha da sempre trovato la sua casa: come nota Françoise Collin, “la comunicazione fra donne si nutre essenzialmente del confronto di racconti di vita, piuttosto che dell’urto reciproco di idee”; e ancora, con Adriana Cavarero: “sono sintomaticamente soprattutto le donne a raccontare storie di vita”. Ed è per questo che una rubrica che si incarichi di gettare una luce sulle stanze editoriali da cui oggi strabordano le scritture di donne, non può che passare per il tramite di un ennesimo racconto, di una ennesima richiesta di narrazione, di una ennesima domanda di chiarimento. Domanda che non può che essere rivolta, ogni volta, a una donna che del panorama editoriale e letterario italiano faccia parte, che lo conosca e ne sappia individuare i condizionamenti sotterranei e gli intenti prettamente femministi; e che ne sappia raccontare, come Nadia Terranova nell’intervista che segue, le voci insabbiate e da salvare.
In quanto scrittrice riconosciuta, redattrice editoriale e articolista per testate come Repubblica, Vanity Fair, Il Foglio e Internazionale, la tua voce ha oggi uno spazio consolidato nel panorama culturale italiano e un intento ben riconoscibile a uno sguardo d’insieme: quello del dare a tua volta voce ad autrici, contemporanee o del passato, che faticano o hanno faticato ad esser lette, recepite, accolte nel canone o anche semplicemente conosciute. Ma anche quello del dare voce alle donne in genere, alla narrazione delle loro storie quotidiane e dei legami che le rimandano ad altre donne. In questo senso va la tua rubrica «Sirene» per Vanity Fair ma anche la curatela della collana editoriale “Le mosche d’oro” per Giulio Perrone Editore. Puoi parlarci di queste due attività, come anche del tuo intento di disseppellimento delle voci delle autrici?
Per quanto riguarda la collana “Mosche d’oro”, questa serve a valorizzare le scrittrici del presente, contemporanee: io, Giulia Caminito e Viola Lo Moro chiediamo a scrittrici viventi di farci una proposta di racconto di una donna del passato che le ha particolarmente influenzate – non deve essere necessariamente una scrittrice – e di scriverne una sorta di biografia sentimentale. Le “Mosche d’oro” sono tutte quelle donne del passato che oggi esercitano ancora un’influenza su di noi, come Jeanne Moreau, l’attrice, raccontata da Liza Ginzburg, o l’astrologa e traduttrice Lisa Morpurgo, che è stata la scelta di Melissa Panarello, o Louisa May Alcott, in questo caso una scrittrice – ma, appunto, è un caso – scelta da Beatrice Masini. Per quanto riguarda «Sirene», invece, si tratta di una rubrica in cui do voce alle donne contemporanee, che possono essere famose ma anche non famose, possono essere delle parrucchiere come delle scrittrici note: il punto, lì, è dare voce a quelle donne che oggi, in Italia, costituiscono un tessuto sociale silenzioso.
Mi occupo anche molto di dare voce a scrittrici che non ci sono più e che magari, rispetto ad altre, faticano a trovare un posto nel canone. Quindi, se Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Anna Maria Ortese non hanno bisogno della mia presentazione, magari autrici come Maria Messina, come Maria Occhipinti o come Letteria Montoro (di cui parlo in “Trema la notte”), sono meno riconosciute e non hanno avuto una forma di canonizzazione – attraverso premi letterari o quant’altro –; magari sono autrici che hanno anche avuto tantissimo successo di pubblico e che, però, poi nessuno si è occupato di salvare dall’oblio. In quel caso io me ne occupo o attraverso prefazioni di loro opere (come per Alba de Céspedes, di cui sta per uscire negli Oscar Mondadori una riedizione di “Quaderno Proibito” con una mia prefazione) o scrivendone su Robinson o su Tuttolibri, proponendo ai giornali con cui collaboro delle pagine su di loro.
Per quanto riguarda l’atto della scrittura narrativa, in una passata intervista hai affermato che scrittura e femminismo nella tua esperienza si intrecciano, nella misura in cui entrambi hanno per te a che fare con una presa di radicale coscienza di sé e di libertà. Vorrei chiederti se questo intreccio può essere spinto più oltre e cioè, quanto per te essere scrittrice e femminista influisca sul modo in cui scrivi, sui temi che tratti, sui personaggi che inventi.
Sarò sincera, le definizioni, quando rivolte a me, mi imbarazzano; non sono io a doverle dare, accolgo quelle che arrivano ma, comunque, io mi definisco femminista come persona prima ancora che come scrittrice: diciamo che non sono particolarmente interessata oggi, nella mia produzione, a una letteratura militante di per sé. Inevitabilmente, però, c’è una visione del mondo che si può veicolare attraverso ciò che si scrive, fermo restando che i romanzi, secondo me, si devono occupare non di ciò che è giusto o di ciò che è giusto dire ma di una forma di verità che parta, a volte, anche dalla sgradevolezza di un’eterodescrizione del mondo. Se pensiamo alla letteratura come proposta di modelli femminili giusti, allora, non mi rispecchio in questo tipo di letteratura femminista – che pure ha un suo fondamento –; se invece parliamo di una letteratura in cui appunto, attraverso una complessa visione del mondo, può venire fuori anche un discorso sulle donne, non necessariamente ideologico in partenza, allora mi sembra che questo sia più adatto all’idea di letteratura che ho in mente. Faccio degli esempi concreti: in “Trema la notte” Barbara è un personaggio femminile che, a un certo punto, crea una vera e propria famiglia con le altre donne, donne che non sono sorelle di sangue – ed è quello che noi oggi chiameremmo sorellanza –; siamo nei primi del ’900, queste donne non sono delle attiviste, quindi, per me scrivere di loro non ha tanto significato farne una bandiera politica, perché questo sarebbe equivalso a snaturarle, quanto piuttosto raccontare la verità della storia delle donne del tempo, che è una storia anche di unioni familiari mentre gli uomini erano a lavoro o in guerra, una storia in cui c’era una rete anche tra donne che non si sarebbero mai definite femministe. Quindi, in questo senso, secondo me è importante, quando si scrive, che i personaggi femminili non siano macchiettistici, a meno che questo non abbia una valenza politica; io però preferisco veicolare esplicitamente le mie idee in altri luoghi e lasciare ai miei romanzi la libertà di essere anche sbagliati, di raccontare anche un mondo sbagliato – e questo poi può servire anche come denuncia o come affermazione di una verità.
A tal proposito, ho notato proprio questo leggendo i tuoi romanzi, e cioè che Barbara, ad esempio, ha sì un’anima più esplicitamente femminista ma, comunque, un’anima e non una coscienza vera e propria; come poi mi è sembrato che Ida (di “Addio ai fantasmi”) pensi su un livello più implicito, più sotterraneo, per cui non c’è per lei una presa di coscienza femminista ed è bello che sia così, anche nel racconto della sua prima esperienza sessuale non c’è un giudizio né una riflessione giudicante ma è tutto quasi sottaciuto e solo suggerito.
Sì, esatto; perché, infatti, non amo molto quella letteratura femminista che propone modelli di donne come eroin, e come eroine anche della scorrettezza. Quelle storie vanno bene come biografie magari, mentre preferisco che la letteratura racconti più il vero, e il vero a volte non è esemplare: quel che non mi piace è proprio la letteratura che si prefigge di essere esemplare.
Rifacendoti sia alla tua esperienza in quanto editor e curatrice, e quindi come lavoratrice nella filiera editoriale, sia alla tua esperienza di scrittrice, pubblicata e seguita da editor, pensi che sussista una differenza di status in Italia tra scrittori e scrittrici, in termini di pressione e di aspettative di genere subite, come anche di ricezione e di riconoscimenti limitati?
A livello di pressioni sinceramente no, non credo, almeno questa non è la mia esperienza; ma non è detto che se non è successo a me non succeda ad altre. Dove vedo, invece, ancora una grossa misoginia è nel riconoscimento, e cioè: le scrittrici faticano ancora a essere riconosciute, sia in termini di attribuzione di premi letterari – perché siamo ancora a percentuali che chiaramente vanno migliorando ma che restano molto basse, soprattutto per quello che riguarda i premi letterari più importanti – sia per quanto riguarda il riconoscimento dell’autorevolezza. È raro, infatti, che uno scrittore maschio oggi legga sue coetanee, soprattutto se dello stesso Paese: gli scrittori tendono a considerare le scrittrici come un’altra cosa, e i libri scritti da loro come una cosa per donne che si leggono un po’ tra di loro. E se devono riconoscere l’influenza di una donna, tendono a citare o scrittrici morte e, quindi, innocue o scrittrici più grandi di età e possibilmente straniere: nessuno scrittore, o pochi, possono ammettere di essere influenzati da una loro coetanea o da una scrittrice più piccola e che, magari, vive nella loro stessa città; se ci fai caso c’è un fatto di preclusione verso l’orizzontalità. Questo perché le scrittrici straniere danno meno fastidio, nel senso che non contendono gli stessi premi, non contendono la stessa scena editoriale – e anche perché fa un po’ figo essere esterofili –, ed è più difficile dare un’autorevolezza a una persona che appunto contende con te gli stessi spazi, soprattutto se donna.
Passando al tuo ruolo educativo – come insegnante di scrittura creativa – vorrei sapere quanto dell’essere femminista si riversa nella tua modalità di insegnamento, a livello di tematiche e di contenuti scelti ma anche a livello di modalità di interazione con studentesse e studenti. E vorrei sapere anche quanto di questo si riversa in quell’altra tua attività, che potrebbe essere definita parimenti, se non ancor più, educativa: ovvero lo scrivere libri per ragazze e ragazzi.
Divido la risposta in due risposte diverse: per quello che riguarda i corsi di scrittura creativa assolutamente; c’è una militanza che mi viene abbastanza spontanea, cioè quella, per esempio, di creare delle bibliografie in cui ci sono molte donne: io raccomando agli studenti di leggere donne ma non di leggerle per coprire una quota femminile, piuttosto, se devo scegliere un manuale di scrittura, quasi sempre consiglio il libro “Nel territorio del diavolo – Sul mistero di scrivere” di Flannery O’Connor, se devo parlare di romanzo storico consiglio Maria Bellonci o Anna Banti, oppure, per restare sulle contemporanee, Melania G. Mazzucco o Hilary Mantel. Il vero problema, per me, della maggior parte delle bibliografie delle scuole di scrittura è, infatti, che tendono a consigliare libri di uomini e a coprire solo in minima parte – con il solito discorso delle quote – la quota femminile; e allora io creo delle bibliografie in cui abbiamo il 70%, l’80% di scrittrici e non perché faccio dei corsi di letteratura al femminile – anzi, i miei corsi sono per fortuna pieni di uomini – ma perché penso che queste cose educhino. E cioè, noi non dobbiamo trovare le scrittrici soltanto quando si parla delle “Signore della scrittura” – per citare un bel libro di Sandra Petrignani –; è sì giustissimo fare un’indagine in quel senso ma dobbiamo metterle un po’ dappertutto, un po’ come si deve fare e si fa anche con tutta la questione queer o transgender, come sta facendo la Disney – mi sono ritrovata proprio recentemente a scrivere un articolo su questa cosa delle quote Disney, che può sembrare antipatica, però, mettere un 50% di personaggi che non siano cis ed etero, in realtà, forma l’immaginario –. Quindi, se noi creiamo la bibliografia su un argomento e facciamo caso al fatto che il 50%, il 60%, il 70 % di quella bibliografia è composta da donne, e il corso non è specificamente sulle donne, in realtà facciamo una cosa anche migliore di quando teniamo un corso sulla letteratura femminile.
Per quello che riguarda la letteratura per ragazzi, invece, vale un po’ il discorso sulla letteratura tout court: io non mi pongo mai un intento pedagogico, devo essere sincera, mi diverto molto a scrivere libri per ragazzi e mi piace che siano un po’ gotici e un po’ notturni ma non penso mai a come posso educare i ragazzi. Penso, invece, soprattutto a come mi posso divertire con loro e, forse, questo è il segreto per veicolare veramente dei messaggi: se riesci a scrivere dei libri che sono di vero intrattenimento per i ragazzi, di quell’intrattenimento che ti spinge ad arrivare fino all’ultima pagina – e che non siano esplicitamente divulgativi – allora, magari, può capitare che in questo intrattenere i ragazzi imparino anche qualcosa.
Per finire, vorrei chiederti quali letture di scrittrici “misconosciute” ritieni fondamentali e, quindi, quali libri scritti da donne consiglieresti di leggere, rileggere e contribuire a divulgare.
Io credo che vada assolutamente letta Maria Occhipinti: me ne sono occupata recentemente per un convegno alla Casa delle donne qui a Roma, e direi che “Una donna libera” e “Una donna di Ragusa” sono due libri che assolutamente vanno letti. Lei non è una scrittrice molto conosciuta ed è invece importantissima, proprio per la storia del femminismo, perché, tra l’altro, racconta una cosa che tendiamo a rimuovere, molto sgradevole e molto vera, e cioè il maschilismo del partito comunista che lei ha subito: perché poi è facile parlare dei maschilismi dalla parte avversa e, invece, per molto tempo si è taciuto sul maschilismo, per esempio, del racconto della resistenza, su come sono state poi omesse o rese in maniera un po’ macchiettistica le figure delle staffette e delle partigiane; e la stessa cosa nel partito comunista, che è stato un partito molto maschilista, di cui Maria Occhipinti fa, attraverso il racconto della sua vita, un ritratto veramente giusto, impietoso ma giusto. Poco conosciuta, se poi pensiamo alle contemporanee, è una scrittrice di cui, qui in Italia, si è parlato ma forse non abbastanza e che mi sarebbe piaciuto vedere ancor più riconosciuta: Brenda Lozano, scrittrice sudamericana – credo mia coetanea – che ha scritto questo libro bellissimo intitolato “Streghe”, pubblicato in Italia da Alter Ego nella traduzione di Giulia Zavagna, molto molto bello e che consiglio veramente; è uscito quest’anno e se ne è parlato ma, ripeto, forse non abbastanza.