La storia e talora anche la cronaca ci hanno posto di fronte al drammatico evento dell’assassinio di un capo di stato o di governo per effetto di un attentato terroristico. Il fatto che più di ogni altro è tutt’ora impresso nella memoria collettiva è certamente l’uccisione di John F. Kennedy a Dallas nel 1963; ma non è certo l’unico di quest’ultimo dopoguerra: Si pensi all’assassinio del presidente egiziano Sadat nel 1981, del premier svedese Olof Palme nel 1986 e del primo ministro israeliano Isaac Rabin nel 1995. Se arretriamo di qualche decennio, e sconfiniamo dal campo della cronaca a quello della storia, non mancano altri esempi: Umberto I, re d’Italia, fu assassinato nel 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci, lo Zar Alessandro rimase vittima di un attentato dinamitardo a San Pietroburgo nel 1881, mentre Pellegrino Rossi, primo ministro dello Stato Pontificio, personaggio forse meno noto ma altrettanto degno di essere ricordato per le sue eccelse qualità di giurista e di statista, venne ucciso a Roma da un gruppo di congiurati il 15 novembre 1848.
Ricordare quegli episodi mi provoca sempre disagio e fastidio per due ordini di motivi: da un punto di vista umano il disagio deriva dalla considerazione della sacralità della vita umana che mai dovrebbe subire simili violenze; dal punto di vista storico e politico la disapprovazione nasce dalla considerazione della sostanziale inutilità di tali gesti. Ed infatti non credo di sbagliare se affermo che l’America del dopo-Kennedy non è stata migliore dell’America di Kennedy, che l’Egitto del dopo-Sadat non è stato migliore dell’Egitto di Sadat, e così via dicendo.
I fatti sopra ricordati non appartengono al medioevo ma al nostro secondo dopoguerra, così come non appartengono a paesi in via di sviluppo intrisi di cultura tribale ma a paesi ricchi e progrediti come gli Stati Uniti, Israele e la Svezia. Ciò significa che non dobbiamo ritenerci automaticamente immuni da certe forme di violenza, ma, viceversa, dobbiamo impegnarci affinché tale immunità venga raggiunta attraverso un costante progresso del contesto socio-culturale.
Gli episodi menzionati sono maturati in contesti politici assai diversi fra loro e con motivazioni, almeno in apparenza, altrettanto diverse, e non è questa la sede per un loro approfondito e separato esame. Credo però di cogliere in due diversi ma spesso concomitanti atteggiamenti il denominatore comune di quegli episodi.
Uno di essi è la convinzione che i problemi complessi affrontati dalla politica possano essere risolti con soluzioni semplici e immediate. Purtroppo sappiamo che non è così, che le soluzioni sono quasi sempre complesse e non immediate e richiedono approfondito studio e dialogo affrontato con onesta intellettuale. E quindi propugnare il concetto della soluzione semplice – che è poi uno dei postulati della peggiore specie di populismo – può condurre all’estrema conseguenza che qualche mente “surriscaldata” individui tale soluzione proprio nell’eliminazione fisica del leader avversario.
L’altro atteggiamento, ancor più pericoloso, è l’odio politico, quello che mostra l’avversario non come portatore di una ricetta diversa tesa a raggiungere uno scopo generalmente coincidente con quello del portatore d’odio, bensì come un nemico da eliminare. E dall’eliminazione politica all’eliminazione fisica il passo, sempre per qualche mente “surriscaldata”, può risultare pericolosamente breve.
Odio politico e populismo di bassa lega sono molto presenti nella società attuale, pericolosamente alimentati e amplificati dai social sui quali proliferano insulti, minacce e critiche volgari tutt’altro che costruttive. L’auspicio – peraltro scontato – non è solo di non dovere mai più assistere a episodi come quelli citati prima, ma anche di vedere trasferito nella società civile un po’ di quel clima di unità nazionale che l’attuale governo ha instaurato nei palazzi del potere e che il dialogo e il civile e rispettoso confronto delle idee prendano il posto di tanti inutili e pericolosi veleni.