Quello dei lavoratori stagionali è un problema di cui si sente sempre più spesso parlare e la domanda che ci si pone – alla quale sembra non esserci ancora risposta – è: «che sta succedendo? Mancano i lavoratori o i lavori ben pagati?»
Sebbene si senta parlare principalmente di lavoratori stagionali, la questione si estende in generale al settore terziario, come conferma anche Donatella Prampolini, vicepresidente di Confcommercio, durante l’intervista rilasciata a Radio Radicale:
«[…] probabilmente le aspettative dei giovani o di chi cerca lavoro non vengono intercettate dalle aziende che, al tempo stesso, hanno bisogno non solo di lavoratori specializzati (i quali davvero sono impossibili da trovare in questo momento) ma anche semplicemente di lavoratori stagionali».
La lamentela parte da ambo i lati: dagli imprenditori, che lamentano la mancanza soprattutto di camerieri, bagnini, baristi, cuochi e addetti alle pulizie; e dagli stessi lavoratori, che lamentano condizioni di lavoro sfavorevoli senza tutele di alcun genere.
Molte sono le testimonianze che si leggono sui diversi giornali di imprenditori costretti a modificare orari di lavoro e paghe per mancanza di personale. Molti, addirittura, sono costretti a chiudere i battenti. Questa situazione comporta un aumento notevole dei disoccupati – come testimoniato dal registro Istat – e la situazione, dunque, appare quasi paradossale: i disoccupati aumentano ma il lavoro c’è.
Ma c’è davvero il lavoro? La situazione, sebbene sia riscontrabile a livello mondiale, in Italia è peculiare: le condizioni di lavoro sono precarie, per non parlare del lavoro a nero che è diffuso a macchia d’olio su tutto il territorio nazionale. Hanno davvero ragione gli imprenditori quando dicono che “i giovani di oggi” non hanno più voglia di lavorare e di fare qualche sacrificio?
Se per “qualche sacrificio” si intende essere costretti a lavorare per quasi dodici ore per arrivare a percepire una paga striminzita, allora forse questi giovani d’oggi non hanno tutti i torti; se, con queste parole, intendiamo anche contratti di lavoro che prevedono venti ore settimanali e, poi, nella realtà dei fatti, i lavoratori si ritrovano a coprire ben più di venti ore di lavoro (ovviamente a nero), tutto sommato si capisce la reticenza nell’accettare un posto di lavoro.
La situazione non è nuova e le cause sono molteplici e complesse da analizzare, ma è pur vero che, dalla pandemia, qualcosa è ulteriormente cambiato. Il riprendere a vivere, dopo il tragico periodo di chiusura di tutte le attività, ha sicuramente influito sul quadro che si sta cercando di delineare. Qualcuno ha anche pensato di individuare tra le cause di questa “carestia” il reddito di cittadinanza: secondo Massimo Garavaglia, ministro del Turismo, infatti, questo provvedimento non deve prolungarsi per troppo tempo, altrimenti chi lo percepisce potrebbe “adagiarsi sugli allori”. Si sostiene, insomma, che col reddito di cittadinanza i cittadini siano meno invogliati a cercare un lavoro.
Con queste affermazioni, in realtà, si sta evitando di affrontare il problema principale: il precariato, appunto. Non si tratta di considerazioni senza fondamenta. Le lamentele dei lavoratori che si sentono sfruttati non sono false (non del tutto, almeno): è l’Istat, ancora una volta, che ci offre un quadro completo della situazione. Secondo alcuni dati aggiornati al maggio 2021, infatti, l’importo medio mensile degli assegni – che circa 175 mila nuclei familiari ricevono in Italia – ammonta a 582 euro. Pochi, molto pochi.
Questo ci dà il quadro di una situazione drammatica, in cui le lamentele degli imprenditori sono per gran parte infondate e frutto di un modo di pensare e vedere coi paraocchi. E questa è una situazione, lo ripetiamo, che si può riscontrare anche in altri settori oltre a quello turistico: la vicenda di Sara Viva Sorge, infermiera di 24 anni, morta per il troppo lavoro e il cui ultimo messaggio mandato ai familiari è stato “Ho finito, sono stanca morta”. Poche ore dopo, la ragazza ha davvero trovato la morte in un incidente stradale, a causa della troppa stanchezza per dei turni di lavoro sfiancanti e disumani.
Pur vero, però, è che non si possono fare generalizzazioni e, in questo settore specialmente, il marcio c’è sia dall’una che dall’altra parte. A volte le condizioni di lavoro giuste ci sono, i turni non sono disumani e la paga è decente, eppure i dipendenti, comunque, non si trovano. Perché? Qual è il problema? Si può senz’altro dire che, rispetto al passato, alle abitudini e alle esigenze di una volta, le cose sono cambiate. È quello che sostiene anche Briatore, che dice: «Ai miei tempi l’ambizione era diventare impiegato: adesso è prendere il sussidio». Anche lo chef Andrea La Mantia si esprime a proposito, focalizzandosi soprattutto sul problema del presunto sfruttamento di cui pure si parla spesso: «Bisogna smetterla con questa cosa che noi sfruttiamo i ragazzi. Forse sono stati sfruttati quando andavano a Londra, oppure altrove, all’estero. Io e i miei colleghi non abbiamo sfruttato mai nessuno. Abbiamo pagato sempre tutti e tutto, quindi, lo sfruttare è un alibi. Se poi si vogliono sentire sfruttati, è un problema loro. È un problema di mentalità. Hanno probabilmente capito che il loro stile di vita non era consono non so con che cosa.»
Sulla questione stipendi, invece, ha qualcosa da dire lo chef Vissani: «Oggi alcuni camerieri vengono pagati in nero, perché hanno il doppio lavoro da un’altra parte. Non si pagano 5€ l’ora, noi paghiamo dagli 8€ ai 10€ all’ora. Un dipendente, quindi viene pagato a ore, per cui se le persone non sanno dovrebbero venire qui e vedere come si lavora. I genitori di oggi sono protettivi: anche mia madre era protettiva con me, ma mi mandava a lavorare.»
Dove sta la verità, dunque? Chi esagera? I lavoratori a lamentarsi del precariato o gli imprenditori a lamentarsi della loro incontentabilità? A riguardo, bisognerebbe condurre un’analisi più capillare e dettagliata, che vada a scavare a fondo nel problema. Non è da trascurare anche un altro fattore che rientra tra le cause della mancanza di lavoratori e dell’abbondanza di posti di lavoro: la concorrenza con altre occupazioni che appaiono più favorevoli (dunque più redditizie e con orari di lavoro più sostenibili). Un esempio, in questo caso, ci viene offerto dal settore della logistica, occupazione su cui sempre più persone stanno ripiegando perché considerata più conveniente.
Insomma, quello che traspare per ora da questa situazione è che gran parte della comprensione va ai lavoratori (secondo un’indagine dell’Ispettorato del lavoro, le situazioni di precariato si riscontrano in circa il 75% delle aziende prese in esame). Bisognerebbe, quindi, trovare una soluzione concreta e reale che faccia in modo di modificare un sistema sbagliato alla radice.
Quale sia questa soluzione non lo sappiamo, ma forse lo scopriremo.