Qualche settimana fa, Il Manifesto ha pubblicato un appassionato articolo a sostegno degli insegnanti e del loro lavoro. Io l’ho letto e apprezzato, ma mi ha lasciata perplessa. Ho cominciato a chiedere a chiunque cosa ne pensasse. Ho tempestato di messaggi alcune bacheche e chat e ne ho discusso anche in un gruppo Facebook; ne ho parlato sia con docenti che con persone esterne alla professione.
L’articolo è piaciuto a molti e mi sono chiesta perché non condividessi totalmente questo consenso unanime.
Sono un’insegnante anche io, perdinci. Che cos’ho che non va?
Così, ho riflettuto e ho aspettato qualche settimana, guardandomi intorno e osservando il mondo della scuola, ma con una prospettiva diversa: stavolta, ho provato a immaginare cosa vede chi la guarda da fuori. Speravo che questo mi aiutasse a rispondere alla domanda: “Perché è sembrato perfetto a tutti, tranne a me?”
Alla fine, ci sono arrivata. Se vi sedete con me per qualche minuto, ve lo spiegherò.
L’articolo è scritto a quattro mani: gli autori sono Manfredi Alberti e Jacopo Rosatelli, e ho la sensazione che siano partiti con le migliori intenzioni. Probabilmente, i due autori hanno notato l’assurda sovraesposizione mediatica che si è scatenata sulle istituzioni scolastiche negli ultimi mesi; grazie a questo improvviso protagonismo, si sono resi conto, come tanti altri, dei mille problemi che sembrano essere diventati evidenti solo a partire da marzo 2020.
Di chi è la colpa del disastro della scuola italiana?
Della retorica dell’insegnante missionario, ci dicono. Delle maestre che comprano carta igienica e pennarelli, dalla Val D’Aosta alla Sicilia. Dei professori che stampano fotocopie a casa; degli altri che usano la propria connessione per connettersi alla LIM in classe.
Non va bene lavorare così! Così facciamo i missionari! Così non facciamo rispettare i nostri diritti!
E poi, troppa burocrazia: facciamo troppo, troppo lavoro da ufficio. Così non ci aggiorniamo più, non siamo più consapevoli del mondo attorno a noi e non riusciamo ad attrarre gli studenti. E andiamo in burnout e tutto il resto.
Tutto questo è vero? Risposta: sì. Burocrazia, fai-da-te e burnout sono tre realtà onnipresenti in tantissime scuole, soprattutto nelle realtà più difficili della penisola. Questi sono fatti, desolanti e incontrovertibili.
Eppure, non credo di sbagliare se dico che chi ha scritto quell’articolo ci ha inavvertitamente proposto un altro ruolo dell’insegnante, non meno retorico di quello che ha criticato: quello della vittima, contemporaneamente colpevole di non far rispettare i propri diritti e, dunque, di non saper insegnare allo studente come essere un buon cittadino.
Siamo una categoria professionale che deve riflettere sul suo lavoro e riscoprirne le basi, anche quelle legali, in prima persona. Non ci illudiamo: chiunque si dichiari dalla nostra parte può offrirci solo una spalla su cui piangere e, in cambio, rischiamo che si arroghi il diritto di dire a noi chi e come siamo e cosa dobbiamo fare nel nostro lavoro.
Il punto, vedete, è questo: tutti pensano di poter dire qualcosa agli insegnanti o sugli insegnanti, di poter offrire dei consigli, di spiegare come svolgere questa professione: politici, attori, psicologi, scrittori, artisti, genitori, industriali, ricercatori. Se ne stanno tutti lì a offrirci i loro gentili consigli non richiesti, gli stessi che non servirebbero a un medico, a un geometra, a un avvocato o a un ingegnere.
Come può essere dignitosa una categoria professionale a cui ogni altra categoria sociale e lavorativa può dire cosa fare, cosa e come essere?
Non lasciamo che sia qualcun altro a definire il nostro lavoro e i problemi del nostro lavoro, anche se lo fa con tutte le buone intenzioni del mondo, anche se quei problemi sono reali. Il solo modo per recuperare il rispetto che meritiamo come categoria professionale è di prendere noi il ruolo da protagonisti nella commedia della nostra quotidianità lavorativa. È il momento di sviluppare un dibattito serio e profondo tra docenti, senza abdicare, senza abbandonarlo nelle mani di qualcun altro che avrà un quadro anche abbastanza chiaro, ma mai quanto quello di chi in classe entra ogni giorno.
Forse, se l’accesso a questa professione fosse più regolare, se non ci fossero più ricorsi che concorsi, se ci fosse un percorso di formazione serio, chiaro e definito, se si investisse di più sull’edilizia scolastica, se Lucia Azzolina non avesse reso questa categoria lavorativa l’unica, in Italia, a cui fosse richiesto di lavorare in una stanza con venti esseri umani senza mascherina…
Allora, forse un giornalista scriverebbe diversamente.
Vi dico di più: forse, in quel caso, scriveremmo noi docenti, porteremmo noi avanti il dibattito. O forse, di questi argomenti in particolare, non ci sarebbe nemmeno alcun bisogno di scrivere.