Nell’estate del 1860, mentre era in pieno svolgimento l’impresa garibaldina dei Mille, a Bronte, paese ai piedi dell’Etna, vi fu una rivolta di contadini e braccianti contro i latifondisti. Fu un autentico massacro in cui furono uccisi ben sedici “cappelli”, cioè proprietari terrieri o comunque borghesi benestanti. Ad innescare la rivolta fu la mancata applicazione del decreto dittatoriale di Garibaldi del 2 giugno con cui si ordinava la divisione delle terre comunali e la loro assegnazione ai combattenti e ai capi famiglia poveri. L’attuazione del decreto era stata ripetutamente quanto vanamente sollecitata alle autorità locali da parte dell’avvocato Nicolò Lombardo, liberale e sindacalista ante litteram, contrario all’uso della violenza che fino all’ultimo aveva cercato di scongiurare quanto poi accadde.
L’odio degli insorti era rivolto principalmente contro la Ducea Nelson: un vasto latifondo di proprietà dei discendenti dell’ammiraglio inglese che nel 1805 aveva sconfitto Napoleone a Trafalgar, cui il Re di Napoli l’aveva donato riconoscente per i servigi ricevuti dalla flotta britannica durante il tumultuoso periodo della repubblica giacobina del 1799. E i discendenti dell’ammiraglio, tramite loro rappresentanti, usavano nei confronti dei contadini e dei braccianti alle loro dipendenze metodi ancor più brutali di quelli degli altri latifondisti siciliani.
Nei giorni della rivolta di Bronte Garibaldi, che grazie alla vittoria di Milazzo aveva completato la conquista della Sicilia, preoccupato dalla notizia di una rivolta che avrebbe potuto destabilizzare un dominio sull’isola tutt’ora piuttosto fragile, ordinò a Nino Bixio di recarsi a Bronte per ristabilire l’ordine pubblico. All’arrivo di Bixio la rivolta era già cessata, ma il generale volle compiere un gesto esemplare: fece arrestare cinque uomini, ritenuti erroneamente capi della sedizione, e istituì un tribunale speciale che li giudicasse immediatamente. Fra gli arrestati, tutti innocenti, vi erano l’avvocato Lombardo e un innocuo malato di mente a tutti noto come “il matto del paese”. Dopo un processo rapidissimo e privo delle più elementari garanzie di difesa, gli imputati furono condannati a morte e fucilati sulla piazza di Bronte.
Questa vicenda poteva gettare una luce negativa su Nino Bixio, eroe del Risorgimento e vicecomandante della spedizione dei Mille. E così la retorica post-risorgimentale di fine ‘800 e poi la retorica fascista fecero sì che dei fatti di Bronte si parlasse il meno possibile nei libri di storia. Non mancarono neppure tentativi di mistificazione tesi a dipingere la rivolta contadina come un tentativo di restaurazione borbonica.
Solo a partire da mezzo secolo dopo vi fu chi ebbe il coraggio della verità. L’avvocato brontese Benedetto Radice, che da bambino aveva assistito alla rivolta, scrisse nel 1910 il libro Ninio Bixio a Bronte che ricostruisce con estrema precisione gli eventi.
Molto più tardi ulteriori contributi alla verità vennero dal saggio del 1963 di Leonardo Sciascia Verga e la libertà (nella raccolta La corda pazza, ed. Adelphi) e dal film del 1971 Bronte di Florestano Vancini con Ivo Garrani nel ruolo di Nicolò Lombardo e Mariano Rigillo in quello di Nino Bixio.
Si tratta di tardive affermazioni della verità, ad ulteriore conferma del fatto che la storia, inizialmente scritta solo dai vincitori e quindi difficilmente obiettiva, lo diventa con il passare del tempo e con l’allontanarsi delle generazioni che l’hanno vissuta in prima persona.
Egregio avvocato, puntualizziamo alcune circostanze. Non fu Bixio ad istituire un “tribunale speciale” per giudicare i sette arrestati. Due decreti dittatoriali, del 17 e 28 maggio, avevano stabilito che taluni reati, compresi l’omicidio e il saccheggio, fossero giudicati da Commissioni miste di guerra. Il processo di Bronte fu celebrato proprio innanzi a una di quelle corti. Le accuse nei confronti degli imputati vennero mosse da loro concittadini. Per due degli imputati il tribunale dispose un supplemento di istruttoria. Nè il saggio di Sciascia nè il film di Vancini possono essere ritenuti “fonti storiche”.