L’analisi giuridica dell’avvocato Luciano Francesco Marranghello in tema di legittimità costituzionale dei provvedimenti adottati dal governo e dalle regioni a seguito dell’emergenza sanitaria causata dal contagio da coronavirus
Il 9 gennaio 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha comunicato la scoperta da parte delle autorità sanitarie cinesi di un nuovo virus mai identificato prima nell’uomo, il 2019-nCoV o COVID-2019, associato a un focolaio di casi di polmonite registrati nella città di Wuhan, nella Cina centrale.
Il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione mondiale per la Sanità ha dichiarato l’emergenza internazionale di salute pubblica per l’epidemia di COVID-19 (il cosiddetto nuovo coronavirus), dettando le linee guida per la sorveglianza globale sul fenomeno.
Il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri ha deliberato lo “stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, con un provvedimento fondato sull’esercizio dei poteri in materia di protezione civile previsti dal d.lgs 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile), che, all’articolo 24 disciplina lo “stato di emergenza di rilievo nazionale”.
Fermo restando che, sulla base dei principi costituzionale anche sulla base delle tante pronunce al riguardo della Consulta, la legge e gli atti con forza di legge sono legittimati a comprimere i diritti individuali per far fronte all’emergenza sanitaria, ovviamente qualora ricorrano i presupposti richiesti dalla Costituzione e, comunque, nel rispetto del principio di proporzionalità.
Gli eventi emergenziali di protezione civile, che legittimano l’emanazione di tali provvedimenti, sono definiti dall’articolo 7 del d.lgs 1/2018 in relazione a una progressione di incidenza sull’ordinaria vita civile così descritta:
“a) emergenze connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che possono essere fronteggiati mediante interventi attuabili, dai singoli enti e amministrazioni competenti in via ordinaria;
b) emergenze connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che per loro natura o estensione comportano l’intervento coordinato di più enti o amministrazioni e debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo, disciplinati dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano nell’esercizio della rispettiva potestà legislativa;
c) emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24”.
L’epidemia da COVID-19 è stata dunque ritenuta rientrare nella più grave ipotesi di cui alla lettera c).
L’alveo normativo della risposta all’emergenza è ora costituito dalle disposizioni contenute nel decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020, a cui hanno fatto seguito provvedimenti specifici governativi, regionali e di concerto, il primo dei quali è il Dcpm 23 febbraio 2020 (stessa data del decreto-legge) recante “misure urgenti di contenimento del contagio nei Comuni delle Regioni Lombardia e Veneto” seguito da un Dcpm del 25 febbraio 2020 e da uno di contenuto più ampio e articolato del 1° marzo 2020: la successione dei provvedimenti è con evidenza determinata dall’evolvere della situazione e delle conoscenze sulla diffusione del virus.
Nella fase immediatamente successiva, si è susseguita l’emanazione di ordinanze da parte di autorità a vario titolo competenti in materia sanitaria e più o meno prossime al focolaio di contagio, nel caso dei comuni in genere fondate sul Testo unico delle leggi sugli enti locali (d.lgs n. 267 del 18 agosto 2000), che all’articolo 50, commi 5 e 6, prevede il potere del sindaco di emanare ordinanze contingibili e urgenti “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale”; mentre nel caso in cui l’emergenza superi il territorio comunale “l’adozione dei provvedimenti d’urgenza ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell’emergenza e dell’eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali”; tuttavia anche in caso di rilevanza sovracomunale i sindaci possono adottare le misure necessarie fino a quando non intervengano i soggetti competenti. Peraltro il successivo articolo 54, al comma 2, prevede un potere di ordinanza del sindaco anche quale ufficiale statale di governo: “il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini“.
L’art.3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 prevede che le misure di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 sono adottate, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentito …. i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale; Successivamente con L’art.1 del citato DPCM 8 marzo2020, applicabile all’intero territorio nazionale è stato disposto di evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché’ all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute.
Il citato DPCM consente il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza.
Con i successivi DPCM (9 marzo e 11 marzo 2020) le misure di contenimento di cui all’art. 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2020 sono state estese all’intero territorio nazionale
Rilevano al riguardo:
la disposizione che vieta ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio del menzionato virus, nonché’ all’interno dei medesimi territori. salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute;
l’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, che dispone che <<Le autorità competenti, con le modalità previste dall’articolo 3, commi I e 2, possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID- 19 anche fuori dei casi di cui all’articolo 1, comma l “;
l’art. 5 comma 4 del DPCM 8 marzo 2020 che sancisce che “Resta salvo il potere di ordinanza delle regioni, di cui all’art.3, comma 2, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6”;
l’art. 32 della legge n. 833/78 che dispone che “il Ministro della sanità può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni”, nonché “nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale e dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale “;
Ebbene il quadro normativo nazionale cosi sommariamente delineato trova la fonte principale esclusivamente negli articoli 2, 16, 17, 32 e 120 della costituzione che rispettivamente recitano:
art. 2 :<< La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”>>;
art. 16 :<< Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche;
art.17: << I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica.>>
art. 32 :<< La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.>>.
art. 120, comma 2, : << Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica>>
Inoltre, va segnalato anche l’art. 2 CEDU che stabilisce che il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge.
Per quanto riguarda invece l’Unione Europea, la tematica della salute è stata introdotta per la prima volta nel sistema U.E. dal Trattato di Maastricht del 1993. Questo Trattato infatti ha inserito nel Trattato istitutivo della Comunità Europea il Titolo X, “Sanità pubblica”, composto dall’articolo 129, il quale stabiliva che la Comunità contribuiva “a garantire un livello elevato di protezione della salute umana, incoraggiando la cooperazione tra gli Stati membri e, se necessario, sostenendone l’azione.” Come sappiamo, il Trattato istitutivo è stato modificato dai successivi trattati, al fine di ampliare le politiche dell’Unione. Attualmente le competenze dell’Unione Europea in tema di salute si possono rintracciare negli articoli 6 e 168 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, così come modificato nel 2009 dal Trattato di Lisbona. L’art. 6, inserito nella Parte Prima “Principi”, Titolo I, “Categorie e settori di competenza dell’Unione”, stabilisce che l’Unione “ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri”. Tra i settori di tali azioni sono anche previsti, al primo punto, la tutela e il miglioramento della salute umana. L’art. 168 si trova invece nella Parte Terza “Politiche dell’Unione e azioni esterne”, unico articolo del Titolo XIV intitolato appunto “Sanità Pubblica”: in esso si legge che “l’azione dell’Unione, che completa le politiche nazionali, si indirizza al miglioramento della sanità pubblica, alla prevenzione delle malattie e affezioni e all’eliminazione delle fonti di pericolo per la salute fisica e mentale. Tale azione comprende la lotta contro i grandi flagelli, (…) nonché l’informazione e l’educazione in materia sanitaria, la sorveglianza, l’allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero.”
La dottrina costituzionalistica ha precisato che sotto la sintetica espressione “diritto alla salute”, è possibile rintracciare una “pluralità di situazioni soggettive assai differenziate tra di loro”. Secondo alcuni, il “diritto alla salute” risulta essere una “figura giuridica complessa”. Infatti, al suo interno si possono individuare alcune posizioni soggettive, diverse l’una dall’altra, che danno origine a diritti e doveri in capo a specifici soggetti dell’ordinamento giuridico. Altri parlano della salute come un “fascio di diritti” e di “una categoria concettualmente polisemica nella quale convergono e confluiscono, tutto sommato armonicamente, antiche e consolidate necessità (la salute come igiene pubblica) e nuovi e più raffinati diritti”.
In particolare, secondo la dottrina e la giurisprudenza della Corte Costituzionale il “diritto alla salute” si estrinseca come:
– diritto di ciascuno a conservare il “capitale salute” che si ha in un determinato momento. Al riguardo bisogna distinguere tra “creditori” e “debitori”: tutti i cittadini sono “creditori” di questo diritto alla protezione della salute, mentre i “debitori” sono, da una parte, gli altri consociati, e dall’altra le autorità sanitarie pubbliche, sia locali che nazionali, nonché i soggetti e le istituzioni private che operano nel campo della salute;
– diritto di ciascuno di poter recuperare la salute perduta diritto al recupero della salute, si pone quindi tra i diritti sociali. Questi ultimi sono detti anche “diritti di prestazione” in quanto individuano “specifiche pretese dei cittadini ad ottenere prestazioni di attività o cose da parte dello Stato o di altri enti pubblici comunque esercitanti pubbliche funzioni;
– diritto degli indigenti a ricevere cure gratuite;
– dovere di essere curato. La tutela che l’ordinamento attribuisce alla salute fa sorgere una situazione soggettiva di diritto-dovere: se da un lato il singolo ha il diritto ad essere curato, dall’altro egli ha anche il dovere di salvaguardare la propria salute, di mantenere la propria integrità fisica, di aver rispetto del proprio corpo. La salute costituirebbe infatti un bene strumentale allo sviluppo della personalità di ciascuno e da questo sviluppo la società nel suo insieme ricaverebbe un vantaggio; ecco per quale motivo l’ordinamento giuridico può imporre a chi è malato di curarsi, proteggendo in questo modo anche la salute degli altri consociati;
– diritto di non essere curato. Tale diritto può essere desunto anche dalla disposizione dell’art. 13 della Costituzione, il quale stabilisce la libertà del singolo di disporre del proprio corpo. Tale diritto, però, deve essere esercitato dal soggetto in modo consapevole, chiaro e concreto. Detto in altri termini, in questo caso la volontà del soggetto sarebbe assoluta e sovrana, e il malato sarebbe l’unico legittimato ad esercitare il suo diritto alla salute. Di fronte a una simile volontà, il potere statale non dovrebbe intervenire in modo autoritativo ma al contrario dovrebbe fare un passo indietro, rispettando e accettando la decisione del singolo. Tuttavia tale diritto di libertà potrà essere esercitato solo nel caso in cui la malattia del singolo arrechi danno soltanto a quest’ultimo e non incida né sulla salute né sul benessere degli altri consociati;
– diritto a un ambiente salubre.
Appare evidente che in caso di accertato stato di emergenza sanitaria è prevalente la tutela da parte dello stato del bene supremo della vita (art. 2 Cedu). La salute infatti costituisce “un bene strumentale allo sviluppo della personalità di ciascuno e allo sviluppo la società nel suo complesso”.
Con la sentenza n. 88 del 1979 la Corte Costituzionale qualifica il diritto alla salute quale diritto soggettivo, ma afferma che esso, essendo tutelato dall’art. 32 della Costituzione, si configura come un diritto primario e assoluto.
Con la sentenza n. 399 del 1996 la Consulta richiamata alla sua precedente giurisprudenza, attraverso la quale è stato affermato che la salute è un bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona e che impone piena ed esaustiva tutela, sia in ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato, ha affermato che il diritto del cittadino si traduce nella pretesa a condizioni di vita, di ambiente e anche di lavoro che non mettano in pericolo la propria salute.
Nella sentenza n. 267 del 1998 la Corte Costituzionale, richiamandosi alle precedenti sentenze da lei stessa emesse su questo argomento, ha riaffermato il principio secondo cui il diritto alla salute implica il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la sua tutela.
Degna di nota è la sentenza n. 438 del 2008 in tema di consenso informato e di rapporti tra stato e regioni. Quest’ultimo tema è quello che a noi interessa. La Corte Costituzionale ha stabilito al riguardo che ai sensi l’art. 117 della Costituzione prevede che sia lo Stato a determinare “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.
Ebbene appare evidente dalle superiori considerazioni che il diritto alla salute nelle varie rappresentazioni soggettive come diritto fondamentale già presenti nella Costituzione nazionale, riceve un rafforzamento da parte dell’ordinamento internazionale e sovranazionale.
La tutela della salute è intesa non solo come bene personale, ma anche come bene dell’intera collettività, collettività che, appunto, ha bisogno della salute di tutti i suoi componenti per meglio crescere ed affermare i propri valori. La norma integra, dunque, i cangianti contorni strutturali non solo di un diritto soggettivo, ma anche quelli di un interesse collettivo, di un diritto sociale e di un limite all’esercizio di altri diritti.
Inoltre, appare pacifico che il diritto alla salute è garantito non solo dalla definizione di norme e, più in generale, di regole astratte, ma anche e soprattutto da comportamenti e da azioni amministrative
E ciò in quanto la tutela della salute è una precondizione dell’effettivo godimento dei diritti conferito dalla Costituzione ai cittadini e non.
In tale ottica la salute costituisce un bene primario non soltanto dell’individuo: da un lato, perché la tutela dell’efficienza somatopsichica del singolo corrisponde, in definitiva, alla difesa dell’efficienza delle strutture produttive della società stessa; dall’altro, perché la tutela della salute dei singoli individui componenti la società costituisce la situazione favorevole allo sviluppo del progresso sociale e del bene comune. Ecco perché si giustifica l’intervento dello Stato avente il fine essenziale di provvedere al bene comune.
In quanto, diritto “fondamentale” della persona – e non solo del cittadino -, la salute è, innanzitutto, dunque, espressione di una posizione di libertà e presuppone, pertanto, il connotato e/o attributo della disponibilità. Tale diritto, tuttavia, al pari di qualunque posizione giuridica soggettiva, non assume certo una valenza assoluta ma richiede di essere contemperato con ulteriori (e parimenti rilevanti) interessi.
Ed invero l’ordinamento giuridico, tenuto conto del preminente interesse collettivo, prevede istituto eccezionali extra ordinem per far fronte a situazioni emergenziali di tutela per motivi di sanità e sicurezza pubblica che trovano la giusta copertura costituzionale negli articoli prima citati
L’uso dello strumento del decreto-legge, quindi, si mantiene saldamente nell’alveo ordinamentale la reazione all’emergenza epidemiologica facendone oggetto di norme di rango primario adottate in coerenza con il dettato dell’articolo 77 della Costituzione.
Né può rilevarsi come da qualche parte è stato impropriamente sostenuto che gli atti di governo de quo sia sfuggito ad ogni forma di controllo.
Il primo filtro è svolto dal Quirinale che, nei casi in esame, non risulta abbia sollevato eccezioni nei confronti del Governo. Anzi, è semmai da segnalare l’intervento video del Presidente della Repubblica, in data 5 marzo 2020, che, con un appello all’unità del Paese, ha espresso sostegno per l’attività del Governo, affermando che «Alla cabina di regia costituita dal Governo spetta assumere – in maniera univoca – le necessarie decisioni in collaborazione con le Regioni, coordinando le varie competenze e responsabilità. Vanno, quindi, evitate iniziative particolari che si discostino dalle indicazioni assunte nella sede di coordinamento».
Successivamente vi è stata la copertura con due due atti di particolare importanza.
Il primo è l’approvazione della legge n. 13 del 5 marzo 2020, di conversione del decreto-legge n. 6 del 2020.
Il secondo atto è il voto parlamentare che ha autorizzato lo scostamento di bilancio, ai sensi dell’art. 6, c. 5, legge n. 243 del 2012.
L’Italia è un ordinamento decentrato.
Il potenziamento delle competenze regionali realizzato con la riforma del 2001 è bilanciato dalla previsione di poteri sostitutivi che il governo centrale può attivare in casi eccezionali.
L’art. 120, c. 2, infatti, prevede che il Governo possa sostituirsi agli altri enti territoriali nei casi «di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali».
Il Governo nell’affrontare l’odierna emergenza coronavirus ha seguito una strada rispettosa delle competenze degli altri livelli territoriali, rinunciando ad utilizzare lo strumento previsto dall’art. 120, c. 2, Cost.
Oggi pertanto ogni livello istituzionale agisce nell’ambito delle proprie competenza.
Come è noto il decreto-legge n. 6 del 2020, che rappresenta il principale perno dell’azione emergenziale del Governo, è già stato convertito in legge.
L’art. 3, c. 2, del decreto-legge n. 6 del 2020 dispone che le misure volte al contenimento dell’epidemia possono essere assunte dal Presidente della Regione o dal Sindaco, ma solo «nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1».
Ne consegue che il potere di ordinanza di Regioni ed enti locali per motivi sanitari, per far fronte all’emergenza Covid-19, sia limitato ai casi di estrema necessità e urgenza.
A ciò si deve aggiungere anche la previsione dell’art. 35 del decreto-legge n. 9 del 2020 che, dispone che «non possono essere adottate e, ove adottate sono inefficaci, le ordinanze sindacali contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza predetta in contrasto con le misure statali».
Tuttavia, è ammissibile che i Sindaci e i presidenti di Regione possano intervenire per integrare o completare le misure adottate dal Governo. È il caso, ad esempio, delle ordinanze di comuni e regioni , adottate per emergenza sanitaria, che hanno disposto la chiusura dei parchi pubblici, inasprendo ulteriormente le misure assunte dal Governo.
Ed invero simile potere di ordinanza “integrativo” rientra nell’ambito dell’art. 3, c. 2, del decreto-legge n. 6, che consente l’intervento solo «nelle more» dell’adozione di provvedimenti governativi.
Inoltre va sottolineato che il potere di ordinanza ex art. 32 legge 833/78 per emergenze sanitarie, così come il potere di ordinanza della Protezione civile sono stati tendenzialmente riconosciuti conformi ai principi dell’ordinamento sia dalla giurisprudenza costituzionale, sia da quella amministrativa. Tale potere tuttavia va circoscritto di circoscrivere alla dimensione temporale e ai contorni applicativi. Per cui, nel caso dell’emergenza Covid-19, correttamente si è scelto di confinare le ordinanze alla soluzione di aspetti specifici e limitati, lasciando invece al decreto-legge (e agli atti collegati) la gestione complessiva dell’emergenza.
Inoltre, non va sottaciuto che il tentativo di tipizzazione delle misure di contenimento, nell’articolo 1 del decreto-legge, si scontra con la generale possibilità di adozione di “ulteriori misure” di cui all’articolo 2; il che pone il problema della collocazione della materia nell’ambito delle ordinanze di necessità e urgenza quali provvedimenti amministrativi straordinari, nominati ma atipici, espressione di un potere amministrativo extra ordinem ma non legibus solutus.
Non inutile è dunque il richiamo al fondamentale dictum della Corte Costituzionale risalente alla sentenza n. 8/1956 in materia di ordinanze prefettizie: “efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell’urgenza; adeguata motivazione; efficace pubblicazione nei casi in cui il provvedimento non abbia carattere individuale; conformità del provvedimento stesso ai principii dell’ordinamento giuridico”; ribadito dalla sentenza n. 26/1961 che tornò a qualificare le ordinanze di necessità ed urgenza come “atti amministrativi vincolati ai presupposti dell’ordinamento giuridico” e, a fronte di una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione ritenne di dover intervenire con una declaratoria di illegittimità costituzionale dell’articolo 2 delle leggi di pubblica sicurezza, in cui si richiamava la distinzione tra riserva costituzionale assoluta e riserva relativa di legge.
E’ evidente pertanto che alla luce delle considerazioni esposte s i può ritenere che il bilanciamento dei beni costituzionalmente rilevanti abbia come parametro l’articolo 32 della Costituzione: ponendo tuttavia attenzione al fatto che la norma costituzionale indica la tutela della salute come “fondamentale diritto dell’individuo” ma anche come “interesse della collettività”, termine quest’ultimo che richiama con evidenza le esigenze di contenimento di malattie diffusive, anche, eventualmente, con trattamenti sanitari non assistiti da consenso (tema di cui si è occupata di recente la Corte Costituzionale, sotto profili diversi, nelle sentenze n. 268 del 22 novembre – 14 dicembre 2027 e n. 5 del 22 novembre 2017 – 18 gennaio 2018 in materia di obblighi vaccinali).
Vi è tuttavia un ulteriore bilanciamento, o meglio un equilibrio costituzionale, che l’emergenza COVID-19 e i provvedimenti che ad essa intendono fare fronte porta alla luce.
Il confronto, a un livello superiore, può porsi tra articolo 2 e articolo 3, secondo comma, della Costituzione.
Il decreto-legge n. 6/2020 e i più motivati e fondati provvedimenti di risposta all’emergenza epidemiologica recente sono ispirati a esigenze di eguaglianza sostanziale: l’epidemia, secondo le progressive recenti acquisizioni di conoscenze scientifiche sul COVID-19, è paritaria nella sua diffusione ma selettiva negli effetti, poiché colpisce in forma più grave i soggetti più fragili: anziani, immunodepressi, portatori di patologie croniche o comorbilità.
Dunque, la prevenzione della diffusione dell’epidemia è misura di riequilibrio di condizioni diseguali di partenza.
Inoltre, la mancata riduzione del potenziale numero di malati produrrebbe, in prospettiva e in maniera crescente, un sovraccarico del servizio sanitario pubblico, compromettendone la funzione di risposta universale finalizzata a fornire eguali opportunità di cura a tutti i cittadini, in particolare a coloro che per condizioni socioeconomiche deteriori di partenza senza il servizio pubblico non potrebbero accedere a cure di adeguato livello.
Ora bisogna domandarsi se la quarantena – prevista come obbligatoria sia dall’Ordinanza De Lica sia dall’Ordinanza Santelli – sia da qualificare come una restrizione della libertà personale (art. 13 Cost.), oppure come una restrizione della libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.).
La differenza è di primaria importanza perché, qualora si propenda per la riconduzione della quarantena all’art. 13 Cost. oltre alla riserva assoluta di legge deve essere garantita anche la riserva di giurisdizione. Va subito detto che le previsioni del decreto-legge n. 6 del 2020 non sembrano integrare appieno la riserva assoluta, lasciando amplissimi margini di discrezionalità al Governo per l’individuazione dei casi di quarantena, né integra la riserva di giurisdizione, posto che l’obbligo di quarantena non deve essere disposto, né convalidato, dall’autorità giudiziaria.
Il tentativo di ricondurre la quarantena sotto l’ombrello delle limitazioni alla libertà di circolazione, tuttavia, non sembra convincente.
Certamente l’imposizione di stare confinato presso il proprio domicilio, senza contatti sociali incide sulla libertà personale del singolo, intesa come libertà di autodeterminarsi. Va tuttavia precisato che, la misura della quarantena è molto simile alle restrizioni della libertà personale previste dal codice di procedura penale. Per questo motivo è da ritenere insufficiente la procedura cui fa riferimento l’art. 16 Cost. che per disporre le misure di quarantena.
Il governo tuttavia, a seguito una ulteriore strada che è da ritenere compatibile con i principi dell’ordinamento come esplicati e delineati dalla Corte costituzionale in relazione all’art. 32 della costituzione. Ossia si è ritenuto di equiparare la quarantena ad un trattamento sanitario obbligatorio, ai sensi dell’art. 32, c. 2, Cost.
Così facendo, si rientra in un’ipotesi di riserva relativa di legge, che consente al Governo di disporre la quarantena con atti amministrativi, senza autorizzazione o convalida da parte dell’autorità giudiziaria.
Ne consegue che l’ordinanza del Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca rientra pienamente nell’alveo del quadro ordinamentale appena descritto e a nulla rileva, ai fini della eventuale illegittimità, la circostanza da alcuni evidenziata della supposta introduzione nell’ordinamento giuridico di una sorta di “sanzione penale” attraverso un atto amministrativo, consistente nel prevedere che la violazione << degli obblighi di cui alla presente ordinanza comporta, altresì, per l’ esposizione al rischio di contagio del trasgressore, l’obbligo di segnalazione al competente Dipartimento di prevenzione dell’ASL e l’obbligo immediato per il trasgressore medesimo di osservare la permanenza domiciliare con isolamento fiduciario, mantenendo lo stato di isolamento per 14 giorni, con divieto di contatti sociali e di rimanere raggiungibile per ogni eventuale attività di sorveglianza>>.
Lo stesso vale per L’ordinanza della Presidente Santelli per la regione Calabria laddove ai trasgressori, alla luce della potenziale esposizione al contagio, si applica comunque la misura immediata della quarantena obbligatoria per 14 giorni, attraverso il Dipartimento di Prevenzione dell’ASP territorialmente competente, con le modalità già previste dai precedenti provvedimenti regionali, richiamati nella presente Ordinanza.
Si segnala che anche la nuova “autocertificazione” propende per tale indicazione di principio.
Tale misura evidentemente è tesa, nel quadro appena delineato esclusivamente – in applicazione di principio di precauzione e di ragionevolezza – alla tutela della salute quale “fondamentale diritto dell’individuo” ma anche come “interesse della collettività” ex art. 32 della Costituzione.
Né è da ritenere sia configurabile, come pure, qualcuno sostiene, il reato ex art. 323 c.p. carico dei citati presidenti di regione i quali, secondo tale irrealistica tesi, avrebbero inserito una sanzione penale attraverso un provvedimento amministrativo.
Senza voler recedere dalle argomentazioni prima esposte in materia di riserva di leggemi permetto di far rilevare quanto di seguito.
Ritengo sia assolutamente impossibile, nel casi in questione, configurare il reato di abuso di ufficio in capo a al De Luca e alla Santelli laddove l’oggetto giuridico del delitto p. e p. dall’art. 323 c.p., è identificato nel buon andamento e nell’imparzialità della P.A., che vengono richiamati dal principio sancito dall’art. 32 della costituzione che sancisce che la tutela della salute è “interesse della collettività” alla cui tutela sono preposti i pubblici poteri.
Ciò detto, va anche ricordato precisato che il reato ex art. 323 c.p. è integrabile sono da condotte tipiche ossia violazione delle norme di legge o di regolamento, ovvero mancata astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto e se intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
Incontestata la circostanza di aver agito nell’ambito dei poteri a lui spettati per legge (art. 32 legge 83378 e Dpcm) e di trattarsi di potere “integrativo” ex art. 3, c. 2, del decreto-legge n. 6, evidentemente chi ritiene che De Luca abbia commesso il reato di abuso probabilmente è convinto che il Presidente della Regione Campania lungi dal volere salvaguarda la generalità dei cittadini dal contagio voglia intenzionalmente arrecare a questi ultimi un danno ingiusto [salvaguardandoli dal contagio (sic!) ovvero arrecare a se o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, tutto da dimostrare. E non credo che sia possibile.
Avvocato Luciano Francesco Marranghello