Stati Uniti e Talebani, un patto improbabile che potrebbe diventare realtà alla luce dell’attacco perpetrato dall’Isis (nella sua “variante” K). Scendere a patti col nemico contro un nuovo nemico è un errore che Biden non deve compiere.
L’attacco terroristico causato dall’ISIS-K, prontamente vendicato dagli USA con l’impiego di un drone militare verso una delle menti della cellula, benché previsto, ha mischiato le carte sul tavolo degli schieramenti politici e strategici. L’ISIS-K, nemico dei Talebani, è considerato un obiettivo numero uno anche dagli Stati Uniti, che ora potrebbero avvicinarsi al regime talebano per fare fronte comune. Una scelta improvvida, che tradirebbe la memoria di chi ha combattuto per vent’anni in quelle terre, e che rischierebbe di dividere i jihadisti in due: quelli buoni e quelli cattivi.
Lo Stato Islamico è presente in Afghanistan da diversi anni. Dalla provincia del Khorasan si è sviluppata una nuova cellula in seno al Califfato, chiamata “K”, che nacque dall’esodo di centinaia di talebani pakistani, i quali trovarono rifugio in Afghanistan e giurarono fedeltà ad Abu Bakr al Baghdadi, leader dell’ISIS nel 2014, quando la cellula si stava affermando nel panorama jihadista mediorientale. Potrà suonare come contraddittorio il fatto che un gruppo sunnita e terroristico come l’ISIS (K) conduca degli attentati contro un popolo controllato da un altro gruppo sunnita e terroristico, come i Talebani, peraltro vicini ad Al Qaida, anch’essa sunnita. L’inimicizia tra i due, tuttavia, deriva dalla volontà di entrambi di avere la supremazia del panorama jihadista.
In tale contesto, storicamente gli USA hanno dichiarato guerra a entrambi. Verso i Talebani l’hanno annunciata vent’anni fa, quando pianificarono una missione ingente, per diminuire l’influenza di Al Qaida e stanare Bin Laden; contro l’ISIS l’intervento è in atto dal 2014, mirato per lo più in Iraq e Siria. L’Occidente dell’individualismo e delle guerre umanitarie, dunque, contro l’Oriente (e Medioriente) dei terroristi. Il tempo evidenzia come entrambe le missioni abbiano avuto alcuni successi: Al Qaida non è stata sradicata, e oggi risorge grazie alla conquista talebana, ma è stata arginata; lo Stato Islamico ha ridotto, in parte, la sua influenza in Medioriente.
Tuttavia, ora il punto è un altro. Con alle spalle una storia di guerra e nemici giurati, è davvero possibile che gli USA scendano a patti coi Talebani per tenere a bada l’ISIS in Afghanistan? Due prove di convergenza già ci sarebbero.
Come prima evidenza, dal Washington Post si apprende che i Talebani abbiano chiesto agli Stati Uniti di mantenere una presenza diplomatica in Afghanistan oltre il 31 agosto, per presidiare la zona. Un’inversione di marcia rispetto alle minacce dei giorni scorsi. Inoltre, al nascente regime islamico fa comodo manifestarsi in vesti accondiscendenti, simil-democratiche, più istituzionali. In realtà, soltanto qualche leader occidentale e una parte – fortunatamente minoritaria – della stampa italiana possono credere al cambiamento talebano. Che ha mostrato la propria barbarie anche nei giorni passati.
In seconda battuta, lo strike di ieri a Kabul da parte di un drone americano contro un potenziale pericolo terroristico sottolinea il legame di intelligence tra USA e Talebani. Gli uni informano sulla presenza di ISIS-K, gli altri colpiscono.
Ritenere che una distensione nei rapporti col governo talebano possa aiutare l’America nella lotta allo Stato Islamico sarebbe un errore. Il Presidente Biden deve combattere un nemico alla volta: i Talebani sono ancora una minaccia per il popolo afghano. Non lo sono più per i civili americani, perché hanno avuto la fortuna di andarsene, ma per chi resta, ora, comincia l’inferno. E se gli Stati Uniti sono i paladini dell’interventismo umanitario, non possono voltare la faccia. Noi, come giornale, non abbiamo mai creduto ai “nuovi Talebani”, giacché secondo la nostra etica i diritti sono al primo posto. E pertanto non distogliamo l’attenzione dall’Afghanistan dopo il ritiro occidentale. Così deve fare anche il Presidente Biden, preoccupandosi del Califfato come ha sempre fatto (tant’è che la missione è ancora attiva), ma senza collaborare coi Talebani. Egli, malgrado alcune pressioni, non ha cambiato idea sul ritiro delle truppe; ora, però, deve presidiare diplomaticamente il Paese, non per compiacere il regime ma per sorvegliare il territorio, e tenere gli occhi aperti sulle violazioni di diritti e libertà nei confronti degli afghani.
Se la guerra al Jihad è un obiettivo americano, non può esserci una distinzione tra jihadisti buoni e jihadisti cattivi. Una tale ottica rinnegherebbe parte della storia dell’Occidente moderno, che alla guerra non ha dato alcuna impronta religiosa, come invece era solito fare in passato; non c’è nulla di buono in chi si fa saltare in aria tra una folla di innocenti e ne fa strage, benché in nome di Dio. Semmai, può esservi una differenza tra estremisti attendisti ed estremisti impetuosi: i Talebani, anche alla luce dell’opportunità che hanno oggi, cioè di governare l’Afghanistan, attendono; mentre l’ISIS non si fa scrupoli. Tuttavia, sempre di estremisti si parla.
Non può esservi alleanza, quindi.
Innanzitutto, ora l’America deve riprendersi dalla tragedia avvenuta pochi giorni fa, e il Presidente Biden non deve perdere di vista l’Afghanistan. Siamo convinti che, una volta che il mondo riporterà lo sguardo a Ovest, i Talebani torneranno i vecchi tagliagole di una volta. Con una sorta di governo, forse una carta di diritti (che sarà redatta sulla base della Shari’a), con delle agenzie stampa al proprio seguito. Ma tagliagole. E finché qualcuno, rimasto perché senza ragioni di fuga, subirà ingiuste repressioni e sarà privato di diritti e libertà, i nostri occhi volgeranno sempre là, a Est, nel cuore dell’Asia. Se non lo farà l’America, lo faremo noi. Con i nostri mezzi, con le nostre possibilità. Ma con la coscienza al posto giusto.
Hai perfettamente ragione. Temo però che i “nostri mezzi” e le “nostre possibilità” siano veramente pochi e scarsamente efficaci.
Grazie Antonio. È vero, è una questione grande come una montagna, con la sottile ma rilevante differenza, però, che noi non siamo dei piccoli topi in confronto, ma degli scalatori. Pochi mezzi, poche possibilità, ma tanta voglia di fare e far capire – che è diverso, come ben sai, da insegnare. Informare, in tali casi, è quanto mai necessario.