Le interruzioni pubblicitarie dei programmi televisivi sono spiacevoli per definizione. Tuttavia io non sono fra coloro che, appena scatta la pubblicità, cambiano canale con gesto insofferente. Anche dalla pubblicità si può trarre qualche informazione (non solo sul prodotto reclamizzato) e qualche spunto di riflessione. Leggo testualmente su Svegliarsi negli anni Venti, un saggio di Paolo Di Paolo edito da Mondadori nel 2020: “Studiare non i singoli individui, ma una civiltà dalla forma dei suoi desideri sarebbe una sfida interessante, ma destinata al fallimento”. In larga misura è vero, ma ci si può provare e la pubblicità ci offre un valido aiuto. In fondo a cosa mira il messaggio pubblicitario se non a sollecitare i nostri desideri e a farne sorgere di nuovi? Quando vedo riproposti frammenti di Carosello degli anni ‘60 mi rendo conto di quanto diversi fossero le aspirazioni e i desideri dei consumatori di allora rispetto a quelli di oggi.
Ma andare oltre significherebbe inoltrarsi in un’indagine sociologica complessa rispetto alla quale confesso tutta la mia inadeguatezza. Qualche considerazione vorrei invece aggiungere sull’aspetto più formale del messaggio pubblicitario, vale a dire sul suo linguaggio di cui mi limito a pochi esempi.
Già da tempo si assiste a una proliferazione del termine cento per cento: tutto è 100% naturale, 100% biologico, 100% italiano, 100% elettrico, e così via; talora la locuzione numerica non è associata a un aggettivo ma a un sostantivo: tempo fa un balsamo era reclamizzato come 100% balsamo, come se si dovesse fugare il dubbio che quel prodotto potesse essere al 50% balsamo e al 50% succo di frutta, candeggina, olio lubrificante o altro. Non comprendo il motivo di questo cento per cento usato spesso a sproposito come un mantra capace di attirare il favore del consumatore. Nei miei personali confronti attira solamente noia e fastidio.
Altra locuzione abusata soprattutto nelle pubblicità di prodotti farmaceutici e parafarmaceutici è puoi provare: locuzione di per sé poco efficace, perché se lo stesso produttore mi dice semplicemente che posso provare significa che è il primo a non credere fino in fondo nell’efficacia del suo prodotto.
E vengo, infine, all’altrettanto abusato plas: plus è una parola latina che, come altre, viene talora inserita nel linguaggio non solo italiano ma anche inglese e tedesco. Meglio di me definisce il concetto la Treccani: “plus avv., lat. – Latinismo usato talora (anche per imitazione dell’uso ingl. e ted.) invece dell’equivalente ital. Più per indicare un’eccedenza, un incremento o sim., o per indicare il segno di +”. Orbene, se parlando in italiano inseriamo nel discorso una parola latina, non vedo perché dovremmo proferirla con pronuncia anglosassone. Quindi plus e non plas, benché la seconda opzione sia ormai largamente maggioritaria nel linguaggio pubblicitario.
Potrei fare altri esempi, ma qui mi fermo con una considerazione finale. Coloro che professionalmente creano i messaggi pubblicitari dovrebbero essere la quintessenza, il non plus ultra (e non il non plas ultra) della creatività; invece troppo spesso appaiono legati a schemi e luoghi comuni ampiamente triti e ritriti. E concludo dicendo che, se non il desiderio, almeno la mia curiosità viene stimolata da quelli che la vera originalità e la vera creatività l’hanno saputa mettere in campo.