Mancano pochi giorni all’inizio dei mondiali di calcio in Qatar e i mezzi d’informazione ce lo ricordalo in continuazione, anche con una certa enfasi. Ed è comprensibile: l’audience è importante come lo è l’indotto – soprattutto la vendita apparecchi televisivi – che generalmente si crea nell’imminenza di simili eventi.
Ma ciò che manca è lo spirito, e non solo per l’ovvia ragione dell’assenza dell’Italia, condannata a rimanere a casa da quello sventurato rigore sbagliato da Jorginho nella partita contro la Svizzera.
Si giocherà un mondiale in una terra priva di qualsiasi tradizione calcistica, e la notizia di qualche giorno fa secondo cui vi sarà un pubblico ben pagato perché assista alle partite con bandiere e maglie colorate affinché le squadre non si affrontino in stadi tristemente vuoti ne è un’amara conferma.
In Qatar farà certamente caldo, ma il mondiale televisivo di noi europei si svolgerà d’inverno, nei salotti delle case con le finestre chiuse. Sembra un dato da poco, ma non lo è. Soprattutto chi come me – per ragioni anagrafiche – ha assistito a mondiali epici come quelli del 1970 in Massico, del 1978 in Argentina, del 1982 in Spagna, del 1990 in Italia, del 1994 in USA e del 2006 in Germania, sa che il mondiale è fatto di estate, di temperature calde, di finestre aperte che fra loro si rimandano l’urlo di gioia o di disperazione che segue a un gol fatto o subito, di caroselli lungo le strade da cui qualcuno sarà disturbato ma che una volta ogni quattro anni si possono anche sopportare.
E credo che la malinconia di un mondiale come quello che sta per iniziare sarà avvertita non solo da noi italiani, la cui squadra è forzatamente assente, ma anche dai tifosi più coinvolti come quelli di Olanda, Inghilterra, Germania, Croazia e tante altre.
Penso che non guarderò neppure una partita. Forse solo la finale per registrare in diretta il freddo dato statistico di chi sarà stato il vincitore.