Sette anni e mezzo, nel minimo (si sale per i reati più gravi in ragione dei massimali di pena), è il tempo concesso al potere pubblico per provare in maniera definitiva la colpevolezza di un soggetto accusato di un crimine: se quel tempo non è stato sufficiente è il potere pubblico a dover desistere.
Il concetto al fondo della prescrizione è di indubbia ragionevolezza: il tempo che scorre affievolisce la memoria del reato e rende inefficace sia l’azione penale che l’esercizio del diritto di difesa. Alla pretesa punitiva dello Stato subentra il diritto all’oblio, cioè ad una redenzione possibile – la civiltà europea tutta si potrebbe condensare in queste due parole.
Eppure, ove dovesse mai realmente applicarsi quanto il nostro Parlamento sta per approvare (difficile regga al giudizio della Consulta), andremmo a inaugurare, come qualcuno ha fatto notare, una nuova categoria dottrinaria: quella del “processo eterno”. L’idea stessa che debba esistere un tempo limite entro il quale debba perfezionarsi il giudizio su una persona accusata di un reato vuol dire considerare quanto il processo di per sé possa rappresentare un’azione vessatoria sull’accusato, a cui è richiesto di difendere, prima che la propria libertà, il proprio onore. Invece qui si immagina che passata la boa del primo grado, si potrebbe restare impanati per anni tra Corti d’appello e Cassazione, non più interessate, come oggi, a velocizzare i propri giudizi in funzione del rischio prescrizione.
Ancor più dobbiamo considerare che, come risulta dalle ultime statistiche, quasi un terzo dei procedimenti si prescrive prima che si perfezioni il primo grado di giudizio: un provvedimento quello del Governo quindi che inciderà solo in maniera risibile sull’economia dei procedimenti giudiziari in Italia.
Nel formidabile incastro a cui ha dato vita la Politica italiana, facendo incontrare i gialli e i verdi, insieme per costruire un governo mai così rivoluzionario, mai così reazionario, la convivenza forzata a volte rischia di diventare soffocante. Soprattutto da quando il ministro “Malafede” è divenuto la vestale del giacobinismo giudiziario. In fin dei conti la proposta di interrompere la prescrizione definitivamente dopo la sentenza del primo grado di giudizio non è altro che uno dei tanti sogni distorti di quelli che, come dice Bruno Vespa, sul comodino, al posto della foto della fidanzata, hanno un bel paio di manette.
La verità è che al fondo del provvedimento sulla prescrizione risiede una concezione tutta ideologica della giustizia. Quella che considera la legalità al pari di un bollino di agibilità politica ad uso e consumo dei magistrati; quella che vorrebbe la magistratura come organismo a chiusura del sistema costituzionale, unica a poter difendere, nella distorsione del suo ruolo, i valori della nostra democrazia; quella che crede nel puritanesimo delle manette.
Se la prescrizione oggi ha un ruolo nel nostro sistema giudiziario è anche quello di calmierare un utilizzo distorto delle prerogative della magistratura. Ecco perché una sua riforma può avere senso solo se passasse attraverso una più ampia revisione del sistema giustizia. Il tutto sperando che sia la ragionevolezza della Bongiorno a prevalere e a salvare l’Italia dal “Davigo pensiero”!