Popoff: il dolore attraverso la melodia di una filastrocca

 «Cercava suo padre bussando le porte a un’ora di notte che non è mai cosa. Lui pure alle volte cercava Cietta, ma poi si scordava e forse era anche meglio».

Di notte un bambino bussa alla porta di Cimino, un vecchietto un po’ smemorato. È un bambino sconosciuto a tutti in paese. È ricoperto da una sciarpa e da diversi strati di giubbotti, come a proteggersi da qualcosa. Con la sua voce da bambino e un po’ spaventato, riesce solo a dire «Mi scu-ci, ci-niò-re à visto mio pa-ttre?»

Il vecchio Cimino accoglie questo bambino: la sua casa gli sembra nuovamente piena da quando ha perso Cietta. Tuttavia quella notte resta il dubbio su chi sia questo bambino sconosciuto.

Così l’indomani si recano in paese e il bambino ha la stessa domanda per tutte le persone che conosce. 

Il piccolo sconosciuto si ritrova così a camminare in una piazza, tra personaggi un po’ strani che abitano queste strade. Sembra quasi una fotografia in bianco e nero di una paesino, tra un fornaio e un prete o chi si nomina professore. 

Un po’ accanto al vecchio Cimino e un po’ da solo, il piccolo, battezzato Popoff, intraprende un percorso nell’umanità vera, in cui si va incontro a personaggi pericolosi, al dolore, al male, ai rancori e soprattutto alle ingiustizie. Alcuni cercano di approfittare di Popoff, ingannandolo per i propri scopi. 

Ma se da una parte c’è l’ingiustizia degli adulti, dall’altra c’è la bontà del bambino, che segue un padre, poi la luce e poi una madre. Tuttavia la bontà, come ci insegna Popoff, non è sinonimo di ingenuità. 

Con i suoi occhi da bambino, Popoff assiste alla crudeltà umana capace di farti vedere la morte di un cane dinanzi ai propri occhi. Una scena brutale che racchiude in sé il triste spettacolo della crudeltà umana. 

Intorno alla sua storia e alla disperata ricerca del padre, si articolano le tante storie che animano queste strade. Ogni personaggio ha un proprio significato che viene indicato dal proprio nome. E come in ogni paesino, sono tra loro legati molto spesso per vecchi rancori. 

C’è un’altra cosa che insospettisce in questa storia, ovvero la comparsa di lettere di espulsione dei cittadini. 

Graziano Gala torna a raccontare la storia di un bambino con la sua estrema delicatezza. Nonostante il ritratto di scene di morte, il lettore non è portato a voltare gli occhi. 

La delicatezza è data dalla sua lingua che da sempre caratterizza le sue storie, già con Sangue di Giuda, suo esordio. Una commistione tra lingua letteraria, dialetto e la lingua dei bambini. 

Tale scelta linguistica e stilistica, dunque la melodia tipica della filastrocca, fanno sì che anche una storia di dolore, possa assumere la forma di una fiaba. Gala lega tra loro elementi della fantasia e dell’immaginazione a elementi realistici e tragici. 

Le scene diventano così visibili al lettore, come se lo scrittore stesse dipingendo luoghi e personaggi.

Gala spinge il lettore a prendere per mano Popoff, così come i suoi personaggi precedenti, ovvero Mino e Giuda. Li segue nelle loro fughe dal male umano, nelle loro ricerche di un mondo che ogni bambino dovrebbe avere il diritto di abitare. 

Si prova un senso di tenerezza seguendo le loro vite, ma d’altra parte è dalla loro visione di un mondo diverso che i lettori dovrebbero trarre insegnamento.

E così a Giuda, Mino e Popoff ci si affeziona fino a volergli bene. 

«È questo che ci salva quando ancora siam bambini: avere un dispiacere e saper dimenticarlo».

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