Un romanzo lirico ed evocativo e, nello stesso tempo, drammatico e realistico, La luna e i falò è da molti considerato il capolavoro di Cesare Pavese, uno dei più grandi e tormentati scrittori italiani del ‘900.
Scritto nel 1949, pubblicato nel 1950, riflette tutta la tragedia e lo sconvolgimento di vite segnate dalla guerra, di un lungo periodo in cui l’uomo scopre che homo homini lupus, che la realtà è per lo più dolorosa, indecifrabile e tragica, che l’esistenza è male e l’uomo non sa contrastarla, non ha gli strumenti per affrontarla. L’uomo si scopre solo, di fronte alla vita e anche alla morte.
Il protagonista è un uomo ancora giovane di cui conosciamo solo il soprannome, Anguilla, che ritorna al suo paese d’origine, ha in sé una ferita, quella dell’abbandono, è ricco, invidiato, ma quella ferita non si è risanata, ha visto il mondo e conosciuto persone, ha viaggiato e vissuto intensamente, ma in quel paese egli ha il suo passato irrisolto, il dolore nascosto, perché non siamo niente se non conosciamo da dove veniamo:
“Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.” (cit. La luna e i falò).
Anche il linguaggio si fa evocativo, lirico, i fatti, gli avvenimenti storici riemergono con il riaffiorare dei ricordi, presente e passato, guerra, visione tragica della vita, evocazione nel ricordo, guerra e realtà carica di simboli e riflessioni personali, la tragedia del presente diventa intima, si interiorizza, il dolore intimo e personale richiama il destino dell’individuo, un destino inevitabilmente di solitudine.
Il protagonista è alla ricerca delle sue origini, ha tutto ma non ha niente, ha fatto fortuna, è ricco e invidiato, ma la ferita che si porta dentro si riapre irrimediabilmente quando torna nei luoghi della sua infanzia. Ha scoperto paesi e mai nessuno però che gli appartenesse veramente, ma quando finalmente torna a casa, nelle Langhe, nel suo paese, quel paese di cui non sappiamo il nome ma che per tutti si identifica con Santo Stefano Belbo, il paese natale di Pavese, si accorge che quella non è più casa sua, per tutti è un estraneo, un arricchito, ed egli si sente sempre più lontano dalla sua terra.
Vuole, desidera rivivere le sue origini contadine, se le sente nel sangue, la terra, la miseria, la lotta per la sopravvivenza, sono evocate nei suoi ricordi, così come la guerra, la resistenza, in un’Italia ancora divisa e ferita, ma non per questo si può parlare di neorealismo; la guerra, le tragedie del reale sono presenti nei pensieri, nei ricordi, quasi pretesto per l’infelicità dell’uomo, che si scopre fragile e sempre più solo.
La narrazione è in prima persona, naturalmente, a rafforzare il legame con il protagonista, gli eventi sparsi, non in ordine cronologico, come rievocati dalla memoria e così riaffiorati alla coscienza.
L’autore riesce a mettere a nudo l’animo umano trattando tutti i temi che lo riguardano più da vicino: l’amore, la guerra, la resistenza, l’amicizia e la morte.
Così un’intensa, drammatica nostalgia pervade uno dei più amati romanzi di Cesare e possiamo capire perché è il romanzo di Pavese da molti considerato il più bello e più autobiografico.
Così l’individuo cercherà una via d’uscita, un’altra vita e, come affermerà un altro grande del ‘900, L. Pirandello, l’unica via d’uscita sembra essere la fuga, ma è solo un’altra illusione.
“Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione” (cit. La luna e i falò)
Il destino del protagonista è lo stesso destino di solitudine di Cesare Pavese, lo stesso destino dell’uomo davanti all’ineluttabilità dell’esistenza e della morte, lo stesso male di vivere, il ritorno alla terra, sofferto, doloroso, cercato, impossibile ritorno all’infanzia e alle origini.
Non si cambia il nostro destino, perché, come leggiamo in una delle sue più belle poesie:
L’uomo fermo ha davanti colline nel buio.
Fin che queste colline saranno di terra,
i villani dovranno zapparle.[…]
(“Legna verde” da Lavorare stanca)