Parola al linguista: il romanesco dialetto o parlata in divenire

Forse chi ha avuto la fortuna o sfortuna di vivere in un ambiente “purista” della lingua si è sentito dire spesso “Non parlare in dialetto, parla in italiano”. Ciò in quanto specie da bambini può avvenire che si venga adottato un modello educativo che punti a valorizzare l’italiano standard, quest’ombra nera che avvolge il modo in cui parliamo e che, sappiamo bene, in realtà non esiste come entità perfetta. Il dialetto è quantomai sottovalutato e demonizzato, ma per fortuna non sempre. I dialetti non sono da disprezzare a discapito dell’italiano, anche se naturalmente generano delle difficoltà. La principale accusa che si fa ai dialetti è quella di non poter essere compresi da tutti gli italiani, anche se – non senza una buona dose di vis polemica – non possiamo affermare con assoluta certezza che, di contro, tutti gli italiani capiscano l’italiano.

Un dialetto che non sembra incorrere in questo “inconveniente” è il romanesco, essendo un codice linguistico assai simile all’italiano. Ecco perché a riguardo, spesso, non si parla di “dialetto”, bensì di parlata. Come ci insegna anche il mondo dell’intrattenimento, il romanesco è una lingua perfettamente comprensibile da ogni italiano, anche se i detrattori di Zerocalcare forse non saranno d’accordo (ci riferiamo con questo alla polemica sull’uso eccessivo del romanesco nella sua serie Netflix Strappare lungo i bordi). Anche per questo, il romanesco è un idioma facilmente imitabile e le cui caratteristiche principali e peculiari sono riconoscibili agilmente anche da i non romani e dai profani non linguisti.

Affermare con certezza se si tratti di dialetto o parlata è impossibile e anche controproducente: è bene che in divenire sia il dibattito come è in divenire il romanesco. Anche perché bisogna capire di quale romanesco si parla. Quello che conosciamo adesso non è come è sempre stato, cosa che vale per qualsiasi lingua – e quindi anche per i dialetti, senza volerci addentrare sulla differenza fra i due termini – che è in continua evoluzione; ma è una storia curiosa quella del romano in quanto, a differenza di altri dialetti, nessuno come di questo ti dirà “Non esiste più il romano propriamente detto, per sentirlo devi anna’” e ti indica qualche luogo molto “popolare”. Il volgare parlato a Roma nel Medioevo ha subito una “toscanizzazione” – con buona pace di Stanis La Rochelle, dobbiamo ammettere che anche se i toscani hanno devastato il nostro paese, hanno contribuito alla formazione del romanesco – maggiore rispetto ad altri dialetti laziali, le cui trasformazioni e varianti sono meno note, ed è questo il motivo per cui ancora oggi nessuno parla di dialetto “laziale” anche se magari si esprime in romanesco qualcuno che non è propriamente di Roma. Pochi sanno che in Italia si è cercato di passare dal romanesco al “romano colto” come lingua ufficiale all’epoca del Fascismo, ma la caratterizzazione colta di questo dialetto è sparita e lo si addita, come ormai tutti i dialetti, come qualcosa di “volgare” o “basso”. Eppure, proprio per la sua vicinanza con l’italiano, il romanesco – termine che nasce come dispregiativo, ma che non usiamo in quel senso – è estremamente agevole. Tracciamo qualche piccola caratteristica, giusto per divertimento.

Quando e se volessimo imitare il romanesco, da non romani, ad esempio, effettueremo una serie di trasformazioni fonetiche, che “allontanano” questo codice linguistico dall’italiano, trasformazioni che sono proprie di qualsiasi dialetto, ma che ci danno l’illusione d’una maggiore facilità e rapidità quando si tratta del parlato romano. Un esempio banale può essere il rotacismo. Prendiamo la celeberrima barzelletta del Cavaliere bianco e il cavaliere nero di Gigi Proietti; sembra quasi un’eresia scriverla così perché tutti ricordiamo er cavaliere bianco. Er è un esempio di rotacismo, ovvero quella trasformazione fonetica che fa passare da /l/ a /r/ se questa è seguita da consonante. In modo analogo, l’affricazione della /s/ in /ts/: per intenderci, la s di Sole si trasforma in una consonante detta affricata – in quanto prodotta in due fasi, non ci dilunghiamo su questo – che trascriveremo come /ts/ e per intenderci è il motivo per cui i romani non sembrano dire “persona”, bensì “perzona”. Quest’ultima trasformazione avviene non sempre e, quand’unque avvenga, solo quando la s è preceduta da n, l o r (per intenderci, bene “er zole”, invece di “il Sole”, malissimo “er cazo” invece di “il caso”, non solo perché si rischia di sembrare volgari).  Da linguisti legati ai dialetti anche per le loro derivazioni, non si può poi non essere affascinati dalle evidente somiglianze tra il romanesco e il latino antico. Ricordiamo Carlo Verdone: ‘sta mano po esse fero o po esse piuma. In questa frase riconosciamo alcuni fenomeni interessanti del romanesco. “Po” sarebbe “Può” con un dittongo mobile che in romano sparisce, essendo frequente il mancato dittongamento, tipico latino: in latino si dice “bonum”, in romano si dice “bono”, in italiano, invece, “buono”, avviene anche con “core”, più vicino al latino “cor”. Non è un fenomeno che avvicina il romanesco al latino, ma possiamo notare anche la riduzione della doppia r: “fero” non è il verbo latino ma è chiaramente la versione romana di “ferro”. Un esempio che invece lega tantissimo latino e romano è il verbo essere, in latino sum, il cui infinito in latino è esse.

4 Commenti

  1. Buonasera, volevo fare qualche precisazione in merito a questo articolo:

    > il romanesco – termine che nasce come dispregiativo

    In realtà la questione è stata ampiamente approfondita nello studio realizzato dal professor Wolfgang Schweickard sulla rivista “Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata” (num. 1, anno 2010). In tale studio si dimostra come l’origine del glottonimo “Romanesco” non avesse all’inizio nulla di dispregiativo ma, come del resto confermato anche dalla Treccani – https://www.treccani.it/vocabolario/esco/ – si riferisse semplicemente all’origine etno-geografica di un nome, e come fosse usato comunemente per la sua perfetta interscambiabilità con quello “romano”, poiché all’epoca il suffisso -esco era non solo ancora produttivo ma preminente.

    Di séguito uno stralcio dallo studio succitato (maiuscolo di chi scrive):

    “Il giudizio di De Mauro – cui Schweickard aveva fatto in precedenza riferimento, n.d.r. – è senza dubbio corretto per quanto riguarda la posizione di Belli, che […] mette in rilievo con enfasi la differenza connotativa tra romano e romanesco. Meno convincente è invece l’assunto che il rapporto di neutrale vs. peggiorativo tra romano e Romanesco sia già esistito «per tempo» e che gli usi di Romanesco riflettano, già in fase antica, un «disprezzo per il dialetto a Roma». In realtà, dal punto di vista linguistico, la situazione storica è più complessa. È fuor di dubbio che il disprezzo nei confronti del dialetto di Roma in epoca antica fosse largamente diffuso. L’espressione di tale disprezzo però non presupponeva un’opposizione semantica tra romano e romanesco. Al contrario, le attestazioni antiche dimostrano chiaramente che, prima di Belli, il glottonimo romanesco non si usava affatto in contrapposizione spregiativa a romano. Le due voci erano quasi sempre interscambiabili. Sia giudizi negativi che positivi sul dialetto di Roma vennero articolati con ambedue i termini, il cui valore concreto derivò unicamente dai relativi contesti […] L’errore risulta sostanzialmente da un’interpretazione semplicistica della semantica di -esco, suffisso a cui nei primi secoli non era inerente una connotazione negativa stabile. […] Ancora più rilevante è il fatto che nell’ambito dei glottonimi, l’uso relazionale – e cioè connotativamente neutrale di -esco era ASSOLUTAMENTE PREDOMINANTE FINO AL CINQUECENTO”.

    Quindi “Romanesco” aveva, in origine, una connotazione semplicemente geografica; quella spregiativa vi si è andata a sovrapporre successivamente, per analogia, probabilmente, con altri aggettivi con identico suffisso e dal significato deteriore (manesco, farsesco, ecc.).

    > Un dialetto che non sembra incorrere in questo “inconveniente” è il romanesco, essendo un codice linguistico assai simile all’italiano.

    Tutto dipende dalla competenza linguistica del parlante. Ciò che, sfortunatamente, rende la frase citata vera il più delle volte, è che oggigiorno tale competenza è praticamente nulla. Perciò che concerne il dialetto i romani vivono una sorta di delirio collettivo autoreferenziale. Essendosi persa qualsiasi continuità di trasmissione orale del lessico, (ma, ça va sans dire, anche della grammatica e della sintassi) si sono convinti che per “parlare dialetto” sia sufficiente appoggiarsi al sostrato perlopiù fonetico rimasto – malamente… – in piedi, non tanto dopo il Sacco di Roma del 1527 ad opera dei Lanzichenecchi, ma dopo la breccia di Porta Pia ad opera dei Piemontesi, e quindi limitarsi a troncare i verbi e poco altro. Del resto, la popolazione romana passò in pochi anni dai circa duecentomila abitanti a più di un milione. E non fu per un “baby boom” ante litteram frutto, diciamo così, dei “festeggiamenti” per la “Liberazione”, ma ovviamente per la massiccia – e linguisticamente devastante – immigrazione da ogni parte d’Italia.
    A tutt’oggi, per chi possiede sufficiente competenza linguistica dialettale, è possibile il ripescaggio di un lessico più propriamente “autoctono”, e di costrutti sintattici non piattamente ricalcati su quelli della lingua unitaria, come invece avviene nel 99,9% dei casi. Dire che sia “un codice linguistico assai simile all’italiano” significa dire tutto e niente, e lo lascerei affermare ai “curatori” o sedicenti tali di quel vero e proprio abominio raccapricciante che è la pagina Wikipedia sul Romanesco. Questa sempre possibile “riattualizzazione” di caratteristiche ormai date per irrimediabilmente scomparse, è stata comunque rilevata anche in sede di approfondimento scientifico dalla ricercatrice Anna Maria Boccafurni, autrice di uno studio su un’opera amatoriale in romanesco, la quale in una chiosa al proprio lavoro, così si esprime (maiuscolo sempre di chi scrive):

    “Ho incontrato qualche difficoltà nell’individuazione di un confine tra il romanesco “datato” e “recente”, per usare i termini di Costa 2001 (pp.221-222) al posto dei classici “antico” e “moderno”, che anch’io ritengo più adatti a significare una competenza comunque viva del dialetto perché ESITI “DATATI” POSSONO UGUALMENTE ESSERE POSSIBILI OGGI”

    https://iris.uniroma3.it/handle/11590/176819?mode=complete

    >il romanesco è un idioma facilmente imitabile

    Be’, questo proprio no! 😀 Forse questa è un’altra convinzione autoreferenziale, ma stavolta di chi romano non è e non è in grado di percepire le sfumature. Ma per chi vi sia nato, invece, è IMMEDIATO “sgamà a quarchituno che viè da fora quant’ opre bocca” (N.B. frase con esiti “datati” ma non ancora “impossibili”, almeno per chi lo voglia…). Il problema è che a imitarlo ci provano tutti, ma non ci riesce nessuno, che se ne rendano conto o meno… 🙂

    >dobbiamo ammettere che anche se i toscani hanno devastato il nostro paese, hanno contribuito alla formazione del romanesco

    Veramente il romanesco esisteva anche prima che venissero qui a “contribuire”… anche qui dipende dai punti di vista: volendo vedere le cose da quello opposto, si può ugualmente dire che hanno “contribuito” alla sua distruzione, sovrascrivendolo in comunque troppa parte con il loro (fin troppo) amato idioma…

    Spero che la prolissità dell’intervento non risulti troppo molesta.

    Cordiali saluti

  2. Buongiorno, grazie dell’intervento illuminante seppur a tratti a mio dire ingiustamente severo. Mi riferisco al fatto che di autoreferenziale non c’è proprio nulla oggettivamente, in quanto io sono siciliana, quindi ci tengo a precisare che ho studiato con assoluta oggettività ciò di cui parlavo (poi gli errori li facciamo tutti), anche a luce di una tesi di master che parla proprio di questo ed è frutto di interviste a vari autori romani e non, a persone romane e non (riflettendo anche io da una linguista non romana), quindi parlo come una che percepisce il romano da totalmente esterna. È una cosa a cui tengo perché le imprecisioni le facciamo tutti, ma sostenere tra le righe (e anche no) che io volessi in qualche modo pilotare l’articolo per fare sentire il romano superiore, (basta leggere la mia biografia messa in bella mostra in redazione) è assurdo in quanto di vantare il romano a me non interessa proprio nulla (intendo dire che sicuramente mi interessa di più del siciliano). Fatta questa doverosa precisazione, passo a rispondere.

    “professor Wolfgang Schweickard sulla rivista “Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata” (num. 1, anno 2010). In tale studio si dimostra come l’origine del glottonimo “Romanesco” non avesse all’inizio nulla di dispregiativo ma, come del resto confermato anche dalla Treccani – si riferisse semplicemente all’origine etno-geografica di un nome, e come fosse usato comunemente per la sua perfetta interscambiabilità con quello “romano”, poiché all’epoca il suffisso -esco era non solo ancora produttivo ma preminente”.

    Questa specificazione spero possa esaurire tutti i dubbi che a mio dire stanno a monte di questo intervento: questo è un articolo, non una tesi intera. Ho un limite di parole da seguire, lo scopo è fare interessare il lettore ma non annoiarlo con nozioni, con un’impostazione anche molto personale, pertanto qualche battuta (come quella sui toscani, dove non è scritto da nessuna parte che il romanesco non esistesse prima del toscano, mi sembra, ma è un modo simpatico per citare Boris e si parla di CONTRIBUTO, che poi tutte le lingue si influenzino da filologa lo so bene), qualche modo sarcastico, o sintetico, ritengo vada perdonato. Peraltro la correzione nell’ambito dei toscani non va a contraddire, mi sembra, il contribuire alla nascita della parlata romana, come lei dice; bensì è esattamente ciò che intendevo, precisamente.
    Conosco gli studi citati, ma secondo la communis opinio (a cui è rivolto l’articolo), per carità erronea ma esistente, romanesco come parola è una sorta di storpiatura di romano, tanto più che la radice -esco come alterato è spesso usata in tal senso ai giorni nostri (un esempio banale è il mio dialetto, siciliano, in cui si dice Ragazzesco quando si vuole indicare una cosa troppo infantile), che poi come origine effettiva storica non lo sia non importa (forse dovrei parlare di uso più che di origine nell’articolo), quando la pragmatica della comunicazione (che peraltro ho con questo articolo praticamente smentito, visto che non parlo di romanesco in modo dispregiativo) decide diversamente. Spero sia chiaro che non c’è il tempo, né l’articolo si pone questo come scopo, di addentrarsi in tutte le questioni di questo genere, sarebbe impossibile, quindi per quanto corrette queste precisazioni alla fine del genere di articolo sono superflue, per una semplice incidentale. Tanto più che ci sono diverse teorie in merito che sfuggono dall’etimologia e dalla correttezza e sfociano nell’uso, che purtroppo non sempre corrisponde.

    “Tutto dipende dalla competenza linguistica del parlante. Ciò che, sfortunatamente, rende la frase citata vera il più delle volte, è che oggigiorno tale competenza è praticamente nulla. Perciò che concerne il dialetto i romani vivono una sorta di delirio collettivo autoreferenziale”

    Ovvio che dipende tutto dalla competenza linguistica del parlante, sarebbe talmente ovvio specificarlo onestamente, ma è oggettivo anche da un punto di vista banalmente fonetico, che il dialetto stretto veneto sia più difficile di una parlata, per esempio, parlo da non romana. A mio dire la fortuna del romanesco non riguarda alcun delirio autoreferenziale considerato che ne parlano studiosi non romani e anche illustri linguisti, come evidenziano moltissimi studi, ad esempio quelli di Paolo D’Achille in L’italiano de Roma, in Lasciatece parlà, a cura di D’Achille P.,
    Stefinlongo A., Boccafurni A. M. oppure di Viviani in La Scienza Coatta e Tavola Rotonda: il romanesco viatico di promozione sociale e integrazione in Marcato G. Itinerari dialettali, Cleup, Padova, 2019, per citare parte della mia bibliografia.
    E a questo mi riferivo quando si parla di romano facilmente imitabile, quando con questo intendiamo la parlata, non certo quello di Trilussa, appunto che tutti CI PROVANO, ci sono dialetti che nessuno nemmeno può PROVARE a imitare (il veneto, ad esempio, ma anche il mio stesso siciliano, che io attenzione parlo, ma riconosco, come pure D’Achille, la differenza). Poi ovviamente ciò rientra nella sfera delle opinioni, per carità, però non mi sento di dire “questo proprio no” quando è opinione diffusa, di profani ma anche di studiosi della lingua, che la parlata romana lo sia, che poi certe sfumature le possano cogliere solo alcuni, è anche questo a dir poco lapalissiano.

    Nessuna molestia, solo ritengo si debba prestare maggiore attenzione agli scopi di un articolo e, banalmente, non pensare “male” delle intenzioni di chi lo ha scritto, specie alla luce delle sue origini totalmente lontane dal suolo romano (e mi sento di dire, pensi un po’, per fortuna).

    Cordiali saluti

  3. Buongiorno, sebbene con enorme ritardo, vorrei rispondere alla sua replica.

    Devo dire che raramente mi è capitato che ciò che scrivessi venisse travisato in così larga parte, cosa che nello specifico del mio intervento precedente mi risulta affatto incomprensibile, dal momento che non mi sembra che esso possa essere tacciato di fumosità o indefinitezza, né men che meno che avesse lo scopo di “insinuare” qualcosa di più o meno sottinteso che non vi fosse già altrimenti esplicitato.

    In ogni caso, anch’io ci tengo a precisare che di “sostenere tra le righe (e anche no)” che lei volesse “in qualche modo pilotare l’articolo per fare sentire il romano superiore” (sic!) non me lo sono proprio sognato, e sono altresì “persino” sicuro di non aver scritto nemmeno alcunché per lasciarlo intendere (tra le righe o anche fuori…). Mi sarei aspettato perlomeno un’indicazione del punto “tra le righe” dove le è sembrato di ravvisare tale intenzione, ma non ne ho trovato traccia. Mi risulta pertanto inesplicabile donde possa lei aver tratto siffatta invero assai singolare convinzione, che, ancora una volta e senz’altro molto più che in precedenza, non posso che definire “autoreferenziale”.

    > (basta leggere la mia biografia messa in bella mostra in redazione)

    Ne convengo, ma mi sembra una puntualizzazione del tutto incongrua con l’intervento da me scritto; chi ha mai anche solo adombrato che lei potesse essere nativa di Roma? Che del resto lei sia invece siciliana è una delle prime informazioni che ho acquisito appena arrivato sul suo blog, dal momento che è scritto proprio sotto il suo nome posto in calce all’articolo.

    Quanto all’accenno all'”autoreferenzialità”, che tanto sembra averla infastidita, basta leggere il mio intervento con attenzione – qualità che lei pretende giustamente da chi la legge, ma che forse dovrebbe dapprima provvedere a sua volta a chi da lei viene letto – per vedere che essa era riferita in primis proprio ai romani stessi, e solo successivamente estesa – ma in modo manifestamente ironico, con tanto di “faccine” (o “emoticon” per gli anglodipendenti) – a chi si ostina a volerne imitare anche i soli tratti prosodico-fonetici più superficiali convinto che non vi sia nulla di più facile, con risultati sempre involontariamente comici, tanto che anche un peraltro eccellente imitatore come Maurizio Crozza, notoriamente versato nella resa di un gran numero di parlari locali della Penisola, ha dovuto in qualche occasione ammettere che il romanesco proprio non gli riesce… (e per sincerarsene, d’altronde, non v’è che da ascoltare una delle sue – linguisticamente – raccapriccianti imitazioni dell’attuale Presidente del Consiglio, sempre che si sia in grado di cogliere la differenza, è chiaro); fatto strano, mi pare, per “un idioma facilmente imitabile”…

    Lei ha preso anche alla lettera la mia battuta finale sul romanesco che esisteva anche prima che “i toscani venissero qui a contribuire”, quando la semplice costruzione della frase doveva lasciar intendere come anche quella fosse un’affermazione ironica, sia pur fondantesi su un fatto reale, vale a dire, che vi fosse già un idioma romanesco con caratteristiche diverse poi in gran parte stravolte dal noto processo di toscanizzazione prima, e ancor più di italianizzazione postunitaria in seguito.

    Mi sembra poi piuttosto contraddittorio invocare l'”opinione comune” per legittimare quelli che si ammettono essere degli errori concettuali perché altrimenti “il lettore si annoia” in un articolo intitolato “La parola al linguista”; ma se il linguista sceglie di attenersi conformisticamente a un’opinione “profana” che per giunta sa essere “erronea”, che utilità ha il suo ruolo di specialista e a che pro richiamarlo nel titolo? Se il richiamo è quello non sarà forse più che probabile che il tipo di lettore attirato sia quello non del tutto sprovveduto in materia? In teoria gli esperti prendono la parola su qualsivoglia argomento per chiarire dubbi e luoghi comuni proprio a quella opinione comune che invece lei sembra voler aver cura di non “disturbare”. Quanto al suffisso -esco, avevo già provveduto nel primo commento a fornire esempi nei quali esso avesse una chiara funzione dispregiativa (manesco, farsesco) per distinguerli da quello in questione, quindi anche a me è apparsa superflua la sua ulteriore precisazione al riguardo.

    >Ovvio che dipende tutto dalla competenza linguistica del parlante, sarebbe talmente ovvio specificarlo onestamente, ma è oggettivo anche da un punto di vista banalmente fonetico, che il dialetto stretto veneto sia più difficile di una parlata, per esempio, parlo da non romana.

    Se ho voluto specificare il ruolo della “competenza linguistica del parlante” è proprio perché nel caso specifico del contesto linguistico romano e per le peculiarità ad esso correlate, ciò non è affatto “ovvio”, o lo è comunque assai meno che per molti altri idiomi locali, proprio per ciò che ho avuto già cura di dire in precedenza – nonché di esemplificare con lo stralcio testuale tratto dal citato lavoro della Boccafurni – circa la differenziazione tra esiti “datati” e “recenti”, sempre possibili a Roma (fatta salva la succitata competenza individuale) molto più che altrove, poiché in tutti gli altri idiomi non vi è di solito la convivenza anche solo potenziale fra termini tanto distanziati sull’asse diacronico, cosa che in fondo nota anche lei quando scrive ” a differenza di altri dialetti, nessuno (sic) come di questo ti dirà “Non esiste più il romano propriamente detto…”
    A quanto sopra si può anche aggiungere l’affermazione di Andrea Viviani tratta da “Nun me quadra – Il romanesco della web serie Pupazzo Criminale”:
    “È assodata agli studi sul romanesco la dinamica di riaffioramento all’uso di lessemi tradizionali”, nonché quanto riportato dal D’Achille circa “italiano e dialetto a Roma” sul fatto che “non sembrano possibili enunciati totalmente in dialetto e forse neppure totalmente in italiano”, e se non sono possibili i primi è a causa della deficitaria competenza linguistica dovuta alla sempre più pervasiva italianizzazione, di cui il continuum lingua-dialetto è la manifestazione più macroscopica.
    Quindi è proprio l’opposto di ciò che ne ha arbitrariamente tratto lei.

    Poi, se lei per “parlata” intende anche qui ciò che viene comunemente inteso e magari meglio precisato dai termini “inflessione” o “cadenza”, e non quello più precipuo di “lingua che non ha una standardizzazione grafica” (Beltrami, Filologia romanza), ne prendo atto, ma essendo lei un linguista non appariva chiara neanche l’artificiosa distinzione fra tale termine e quello di “dialetto” presente fin dal titolo dell’articolo, invece sostanzialmente equivalenti.
    Che lei intendesse quanto sopra, però, mi sembra evidente dal prosieguo della frase che parla di “dialetto stretto veneto” – ma quale, poi? In Veneto esistono decine di dialetti diversi, afferenti a molteplici sottotipologie – che lei contrappone, a mio parere un po’ forzosamente, a quello di “parlata”, tirando poi in ballo Trilussa, il cui dialetto è invece proprio uno dei più annacquati dall’italianizzazione e dunque comprensibilissimo. In ogni caso, non comprendo perché proprio il Veneto – immagino quello più mediaticamente “spendibile”, di base veneziano-veronese e non le sue propaggini estreme come il bellunese o il trevigiano, assai più ostiche – sia assurto nel suo intervento a emblema di lingua assolutamente inimitabile e, si presume, pressoché incomprensibile per il forestiero, quando la summenzionata koinè veneta costituisce, unitamente proprio a quella neoromanesca, il caso più evidente di continuum lingua-dialetto nel quale ambedue i poli che lo costituiscono sfumano vicendevolmente l’uno nell’altro.
    Mi pare che esistano lingue locali ben più distanti da quella unitaria come i tanti dialetti gallo-italici, in particolar modo quelli lombardi orientali (il Bergamasco o il Bresciano per esempio, o uno qualsiasi dei tanti dialetti emiliano-romagnoli, o il Genovese, pressoché inintelligibili e senz’altro inimitabili per chi non sia del luogo) o alcune parlate (nell’accezione originaria) altomeridionali.
    Per un confronto basta dare un’occhiata qui: https://www.larenadomila.it/sito/l%C3%A9ngua.html

    dove il testo in Veronese è integralmente comprensibile a qualunque parlante italofono medio.

    Inoltre, quella che per lei è la “fortuna” del romanesco, suppongo riferendosi alla sua finanche esagerata e invadente diffusione mediatica che ha avuto fin dall’inizio della cinematografia del secolo scorso, dal punto di vista linguistico è stata invece una calamità, proprio perché ha contribuito alla diluizione e allo snaturamento di un idioma che aveva già subito più modificazioni traumatiche di qualunque altro della Penisola. Non da ultimo, per la ragione che ciò ha sempre più diffusamente indotto questa deleteria convinzione – esplicitamente promossa perfino da “monumenti” della romanità come i compianti Alberto Sordi e Gigi Proietti – che non sia altro che uno storpiamento dell’Italiano che tutti possono parodiare con poco sforzo; cosa che, in effetti, in molti casi può anche arrivare ad essere, essendosi pressoché totalmente persa la tradizione orale a causa delle note vicende storiche, ma è proprio qui che entra in gioco la “competenza linguistica del parlante” che a lei sembra invece tanto ovvia da non dover esser neppure menzionata. A ciò aggiungerei anche quella “demotivazione normativa” esaurientemente illustrata da Pietro Trifone in più di un suo lavoro, per la quale oggi il parlante romanesco – se tale lo si può ancora definire… – tende a non sforzarsi di esprimersi in una forma compiutamente dialettale, ma rimane a metà strada fra esiti dialettali e quelli del canone italiano, che costituisce proprio il succitato continuum e peraltro fin troppo noto in àmbito linguistico.

    Quanto alle opinioni degli studiosi nel loro insieme invocate a suffragio di quanto da lei sostenuto, avrebbero di certo più valore se fossero un minimo coese anziché discordanti fino all’estrema conseguenza della mutua esclusività. Per chi, infatti, come Roberto Bolognesi, vede nel romanesco nient’altro che “un dialetto dell’italiano” – come se la toscanizzazione quattro-cinquecentesca avesse fatto tabula rasa di tutte le caratteristiche medievali discendenti senza soluzione di continuità dal Latino, che invece sono in parte non indifferente – almeno in potenza se non sempre anche in atto – sopravvissute come anche attestato, vivaddio, dalla Treccani – d’altro canto c’è invece chi, come il professor Ugo Vignuzzi, arriva ad affermare che “non è un semplice dialetto autonomo, ma si avvicina a una lingua vera e propria” – come dichiarò anni fa in un’intervista rilasciata al quotidiano “Il Nuovo”, ora non più reperibile in Rete – continuando quindi a porre in essere una contrapposizione la cui sussistenza, dal punto di vista puramente linguistico, non dovrebbe avere ragione alcuna, e senza che neppure sia dato sapere su quali basi scientifiche ciò venga sostenuto. In ogni caso, e astraendo dal merito delle affermazioni testè citate, come questi due pareri diametralmente opposti e in alcun modo logicamente conciliabili possano stare insieme in un medesimo contesto “scientifico”, rimane per me un mistero… se è vero che “tot capita, tot sententiæ”, è anche vero che in tal modo non vi è poi molta differenza tra la “communis opinio” e quella specialistica cui la prima è usa rivolgersi – spesso in modo peregrino nonché fideistico… – per avere chiarimenti.

    Dalla sua chiosa conclusiva, infine, circa la sua piccata asserzione sulla “fortuna” di avere origini ben distanti dal “suolo romano” come se a chi scrive debba importare qualcosa, si può capire con quanta “serenità” abbia vergato le righe della sua risposta al sottoscritto.
    Stando così le cose i suoi “cordiali” saluti finali suonano invero alquanto posticci ma mi sento di dire che in fin dei conti è un problema suo.

    Detto questo, semplicemente la saluto.

  4. La saluto anche io senza ironia, mi dispiace se sono sembrata piccata ma purtroppo mi sembra chiaro che non c’è stata alcuna volontà, di nuovo, di comprendere lo scopo dell’articolo, lo ripeto, perché si continua a contestare sulla base di cose che non c’entrano e a dilungarsi con prolissi trattati di linguistica. Non è da supporre: l’articolo non è invece un trattato di linguistica (nessuno lo leggerebbe in questa sede, purtroppo eh) e parla di fortuna proprio mediatica. L’autoreferenzialità è stata menzionata più volte, non notata solamente da me peraltro. Ma se uno si deve attaccare ad ogni minima cosa (come l’esempio del veneto, che era un incidentale, e invece ci tiriamo fuori un papiro) è chiaro che non si possa comunicare.

    Grazie comunque di aver speso tutto questo tempo per rispondermi.

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