Nella conclusa conferenza episcopale di Trieste del 7 luglio ’24, in occasione della 50a Settimana Sociale dei Cattolici in Italia, Papa Francescorivolge un discorso ai congressisti e seminaristi presenti, nonché alle autorità pubbliche che assistevano all’evento, che sembrava espandersi oltre le mura triestine arrivando fino a piazza Montecitorio. Sono opportune oggi alcune considerazioni in calce alle dichiarazioni espresse da Sua Santità, in un momento particolare, quasi ‘straordinario’ della storia della nostra repubblica democratica.
“Possiamo immaginare la crisi della democrazia come un cuore infartuato” sono le parole che aprono il discorso ecumenico del Papa all’attuale politica italiana. Difatti da qui non esita troppo, e arriva subito al punto nodale: “ciò che limita la partecipazione è sotto i nostri occhi. […] Ogni volta che qualcuno è emarginato, tutto il corpo sociale soffre”.
È questa la base da cui il pontefice è partito nella sua conferenza per costruire la piramide della ragione di questo giubileo. Ma più che della ragione si è visto nel discorso del Papa, in un raro e apodittico sforzo dal tono teologico, la centralità politica che ha la fede anche per la salute della democrazia.
Dalla “cultura dello scarto”, dove il “potere diventa autoreferenziale” (parole del pontefice), si passa a una serie di citazioni politologiche, quali Aldo Moro e Giorgio La Pira che non sempre hanno trovato largo bisogno nel formulario di questo pontificato, ma che per questo sembrano adombrare una certa sensibilità d’allerta nell’opinione pubblica, non solo ecclesiastica ma anche nel laicato.
Dicendosi preoccupato dalla notevole astensione al voto dei cittadini italiani che queste ultime elezioni hanno ancora una volta dimostrato con inquietante chiarezza, Papa Francesco fa ricorso alla memoria di alcuni principi come la “sussidiarietà” e la “solidarietà”, i quali sono risaputi a sostegno della democrazia, che proprio per la loro universalità suonano allarmanti come non dovrebbe un semplice appello al popolo laico.
Di conforto allora al suo appello contro la trascuranza della minoranza, contro l’indifferenza alla società in cui si è tutti “pari fratelli”, contro la malattia dell’idiosincrasia, si rivelano anche le parole che il presidente Mattarella aveva rivolto pochi giorni prima (4 luglio), affermando che bisogna non confondere “il parteggiare con il partecipare”, quanto piuttosto “adoperarsi concretamente affinché ogni cittadino sia nelle condizioni di poter, appieno, prendere parte alla vita della Repubblica” (Vista Agency).
La variante proposta dal pontefice è simile, “partecipare affinché la democrazia assomigli a un cuore risanato”, e sembra però offrire un maggior ampio spettro di lettura all’interno della già pluriaffermata metafora del corpo statale come riflesso naturale della politica sociale. Un corpo che come quello umano, se scadesse nuovamente in secessioni ideologiche attraverso individualismo e astensionismo, populismo e nazionalismo, non si smembrerebbe dall’Aventino, ma stavolta dalla sua libera identità, e aggiunge il Papa, dalla sua umanità.
A questa reciprocità tra libertà politica e umanità civica del popolo, avevano già risposto lottando le comunità ecclesiastiche del cattolicesimo dopo l’ultima guerra mondiale, porgendo come soluzione l’integrità della democrazia, oggi troppo “male interpretata” dice il pontefice. Democrazia spiega è il governo del popolo, non per il popolo, laddove il “popolo”, afferma, “è più della mera somma di individui”.
“Non lasciamoci ingannare dalle soluzioni facili”, continua il Santo Padre citando anche l’assistenzialismo tra queste, che è lo strumento più efficace di quel populismo che corrode da dentro la democrazia. Quanto più “ci spetta il compito di non manipolare la parola democrazia né deformarla con titoli vuoti di contenuto, capaci di giustificare qualsiasi azione”. Meno allusive sono invece le precisazioni che fa a conclusione di questa sorta di apologia della democrazia, quando afferma che “la democrazia, non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e anche dell’ecologia integrale”.
È forse una delle prime volte in cui il Papa, e nella fattispecie questo papa, ribadisce con così energica anafora lessicale il concetto politico di popolo e quello pastorale di democrazia, con le sue derivazioni oclocratiche e demagogiche, pur senza troppo direttamente scoprire i coperchi dei pentoloni che ribollono in questi mesi di stasi. E tuttavia risaltando il mestiere di universalità sociale della Chiesa che deve investire un ruolo antidotico, o meglio antibiotico, per questo cancro che colpisce non solo la nostra repubblica ai nostri giorni, bensì tutto il mondo che è continuamente esposto a rischi di danni irreversibili per l’intera umanità.
“Come cattolici, in questo orizzonte, non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata” dice Papa Francesco. “Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi” dice, quando “dobbiamo essere voce, voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce”.
Un richiamo all’”amore politico”, così lo chiama, di una Chiesa che negli ultimi anni sta abbandonando, è evidente, il suo magistero di educare l’umanità alla ‘città’, concentrandosì più alla città dell’umanità e spesso finendone coinvolta nei suoi processi di riduzione socialistica e dispersione identitaria.
Dai rischi di simili derive eccentriche che offre gratuitamente la prassi politica autoreferenziale, deve avvedersi perciò anche la cupola vaticana in quanto massimo esponente verticistico della “cosa comune”, ovvero del “bene comune”, per la salute e salvezza del quale non occorre affatto ridimensionare lo spazio della propria scatola valoriale e poi accorgersi di averla soppiantata con l’unica preconfezione del sistema sociale, così come spesso è accaduto allo stesso Santo Padre, sino alla gaffe sui seminaristi omosessuali, poi ritirata, e si dica, ridimensionata.
Ciò che occorre invece, è la capacità del ‘pastore’, sia esso politico o spirituale, di diffondere la luce per quella strada da cui non ci si deve allontanare per il bene comune, presso gli anfratti più restii e inaccessibili della comunità, e non soffocare in armocromia con quel buio, anche quel virgulto, principio di costruzione di salvezza e costituzione dell’umanità.
La funzione del discorso rivolto dal Papa alla conferenza episcopale è così vicina a un tentativo di riavvicinare la religione alla politica nelle scuole, nelle piazze, nelle istituzioni pubbliche e nella stessa sede ecclesiastica, che assolve, per noi spettatori di una crescente e preoccupante tensione e revisione delle fondamenta della nostra democrazia, a una vera e propria “taumaturgia” della ferita politica attraverso il vicino e imminente Giubileo.