Il 19 aprile era iniziato il processo, nel 1994, esattamente vent’anni fa a Firenze, all’imputato Pietro Pacciani. Sul contadino “scarpe grosse e cervello fino” si era concentrata l’accusa principe di 16 omicidi in 17 anni. Un reato quasi ad anno. O forse un killer all’anno?
Certo non dovette essere una accusa così ben retta dai formulari indiziari né dalle indagini che anni dopo vennero fatte più approfondite nella sua casa di Mercatale in Val di Pesa e nel circondario fiorentino sulla controversa Winchester calibro 22.
Tante erano state infatti le vittime, perlopiù giovani coppiette, della cui morte non si spiegavano parecchie tracce rituali lasciate sul luogo del delitto, e di cui non restavano nei fascicoli che questioni giuridiche ancora troppo arcaiche rispetto al quadro del “delitto perfetto”.
Queste difficoltà inquisitorie portarono nel giro di pochi anni la magistratura a un elevato voltaggio di ripensamenti che definirono un punto di non inizio né d’arrivo ai confini del caso. L’atteggiamento fu tale da mostrare all’ inizio del nuovo millennio uno dei più clamorosi momenti di riflessione sulla giustizia sociale in Italia e in Europa.
Non ci si spiegava il motivo di tanto mistero e tanto accanimento su un povero contadino che appariva sempre più il capro espiatorio, il punto di fuga delle impasse giudiziarie italiane.
Ipotesi continue di assoluzione e condanne con nuovi capi d’imputazione si alternavano sui banchi della Cassazione, e accorsi nuovi giudici da tribunali esterni, il presunto killer contadino Pacciani ricevette prima di morire l’ultima notizia dopo la definitiva assoluzione, di dover sedere nuovamente a processo per una fuga di dati arrivata da altre voci, che i pm ironicamente riconducevano parimenti ai cosiddetti “compagni di merenda”.
Come ogni mostro che s’è successo poi in Italia (significativa la sequenza non casuale dal mostro di Perugia a quello della vicina Foligno), «solo cattive imitazioni» le ha definite qualcuno del mestiere, ancora oggi, continua ad essere un caso aperto.
Ma anche un’onta per una nazione che potrebbe esser vista agli occhi dei suoi stessi cittadini come incapace di garantire quella giustizia di cui si parla convintamente nella nostra Costituzione.
Non c’è il bisogno di togliere merito alla complessa originalità del caso, forse uno dei più distorti nella loro semplicità ideologica come fu quello Moro, anch’esso tuttora aperto insieme all’omicidio Pasolini.
Quanto piuttosto si avverte la necessità più materiale nella cittadinanza stessa di una maggiore curatela giuridica da parte della magistratura italiana riferendosi ad ogni caso denunciato reato, e non servirebbe per questo il test proposto da Nordio, e la paura al tempo stesso più intellettuale del cittadino del giustizialismo della facile condanna, vedi il recente e illustrativo caso Canfora.
Il “fondo dell’anima” della Repubblica non deve essere per la democrazia l’incubo della condanna, bensì la coscienza che ogni ingiustizia è da mostrare come “mostro” di tutti i cittadini.