“Non nel mio nome”: conversazione con Michele Santoro

Al termine dell’ultima giornata della Fiera dell’editoria indipendente Liberi sulla carta, sul palco centrale si è assistito all’intervento del giornalista e conduttore Michele Santoro, in conversazione con Emiliano Grillotti. 

L’occasione era quella di presentare Non nel mio nome, l’ultimo libro dell’autore, edito da Marsilio e in commercio dalla fine di agosto 2022. 

L’opera di Santoro, in linea con il suo carattere da sempre volto alla denuncia sociale e politica, vuole lanciare un grido d’allarme contro l’indifferenza generale in cui versa la maggior parte della popolazione italiana, volutamente “inconsapevole” della situazione di crisi che il nostro paese sta vivendo. 

A partire dalla critica ad “una classe politica incapace e impreparata”, Santoro ripercorre le contraddizioni degli ultimi anni senza riservarsi attacchi feroci, “facendo nomi e cognomi”, per dirla nei termini un grande protagonista della nostra storia recente. Non manca, inoltre, la riflessione sui suoi rapporti con Silvio Berlusconi, storica nemesi al quale tuttavia concede riconoscimenti oggettivi.

La stessa verve del Santoro giornalista Rai si riscontra durante la presentazione alla Fiera “Liberi sulla carta” di Rieti, suscitando moti di nostalgia nel pubblico, che accoglie con calore i suoi interventi sui temi più disparati. Sempre, ovviamente, con uno sguardo improntato all’attualità.

Grillotti: Innanzi tutto la ringraziamo per essere qui a Liberi sulla carta. Ma quanto siamo davvero liberi, secondo lei?

Santoro: La natura della nostra Repubblica, nata dalla resistenza, non è cambiata in modo radicale. Tuttavia, trovo che siamo sempre meno liberi, e questa è una preoccupazione. Siamo stati pochissimo liberi durante la pandemia e ci siamo abituati a un bassissimo regime di libertà, dove la cosa più grave è stata la sovrapposizione tra politici, giornalisti e tecnici/scienziati, che dovrebbero restare tre mestieri differenti ma durante la pandemia sono diventati un blocco unico. Questo ovviamente ha diminuito le domande critiche, senza capire più la differenza tra i tre mestieri. Lo scienziato deve basarsi sulla scienza, il politico deve pensare a come si può cambiare la realtà, il giornalista avrebbe dovuto porsi domande, anche scomode, ma tutto ciò non è avvenuto.

Grillotti: Come scrive nel libro, infatti, non c’è un più giornalismo che si fa domande, si è perso il senso dell’inchiesta. Ma come mai? Mancanza di professionalità, mancanza di coraggio?

Santoro: Non è un problema di coraggio bensì di sistema. La tua libertà è condizione della mia, quindi, se il sistema si abitua ad avere un basso tasso di libertà, cosa possiamo fare? Per un giornalista rimanere fuori, impedito a professare, significa perdere contatti con realtà e fonti, non poter far più il lavoro che ama. Dunque, spesso si deve dividere tra coraggio e amore per il lavoro, cercando di capire cosa sia più importante. 

Mio padre sotto i bombardamenti andò a proteggere le macchine della sua fabbrica dall’attacco degli alleati, e lui era antifascista! Prese quella decisione perché percepiva l’importanza del lavoro che, oggi, nella società attuale, abbiamo perso. Non per colpa nostra ma perché è una società che disprezza il lavoro e i lavoratori.

Grillotti: Lei definisce la televisione di oggi come “televisione del dolore”, e scrive nel libro di rimpiangere il periodo della lottizzazione televisiva. Ce lo può spiegare?

Santoro: Certamente non la rimpiango, anzi, ho lottato contro di essa. Tuttavia, era una televisione fondata sulla distinzione tra le concezioni del mondo: Rai uno con i valori del cattolicesimo progressivo; Rai due, con Arbore e Benigni, rappresentava i valori laici; e infine Rai tre, creata per le classi fino a quel momento emarginate ma con un nuovo spazio nella società. Oggi, purtroppo, esiste solo il target commerciale, e nessuna azienda vuole più investire sulla pubblicità. La televisione odierna sta lasciando campo alle multinazionali straniere sul nostro mercato, le uniche che possono investirvi e che, tuttavia, a quel punto, possono decidere come strutturare i programmi.

Quando gli Stati Uniti provarono a entrare nel mercato inglese con la General Electric, la Gran Bretagna fondò la BBC per frenarli; oggi siamo un continente totalmente piegato alla logica americana, non abbiamo fatto nulla per contrastare gli OTT, ci siamo semplicemente arresi (al contrario della Cina). Dovremmo proprio ripartire da qui per difendere l’identità culturale dell’Europa, altrimenti ci ritroveremo ad essere condotti dall’estero non solo sui consumi ma anche sulle scelte politiche!

Grillotti: La stampa ha paura di ammetterlo, mi sembra, così come i leader. Pochi giorni fa qualcuno ha detto che “in Europa è finita la pacchia.”

Santoro: Ti riferisci a Giorgia Meloni ma secondo me il vero pericolo non è lei, bensì il 50% di italiani che non hanno rappresentanza: le dittature partono proprio da questo, tante persone che si sentono umiliate e che quindi si innamorano del primo che passa. 

Se al popolo non dai la possibilità di una dialettica democratica rigenerativa, dove davvero può valutare i candidati, allora non vota, oppure sceglie il candidato che può scompigliare i giochi, pensando “vediamo che succede, come cambiano le cose”. 

Ecco perché ho scritto Non nel mio nome. Se lo volete fare, fatelo. Però ci sarà sempre qualcuno poi che dirà “si poteva fare in un’altra maniera.”

Grillotti: Nel 2002, durante una conferenza stampa a Sofia in Bulgaria, il Presidente del Consiglio Berlusconi attaccò lei, Biagi e Luttazzi, parlando di “uso improprio della televisione pubblica”. Come andò? 

Santoro: Era il periodo degli interventi militari in Afghanistan e in Iraq, che vide una serie di operazioni estremamente costose e una perdita enorme in termini di vite umane.

Noi guardiamo le cose sempre dal nostro punto di vista, ci consideriamo il lato del pianeta “umano e morale”, senza la consapevolezza che al mondo esistano vari punti di vista. Le mie trasmissioni volevano mostrare anche questo, il mondo che c’è dall’altra parte.

La democrazia da esportare prevede dei costi: in 20 anni di intervento in Afghanistan sono stati utilizzati 2000 miliardi di dollari, di cui 1800 miliardi in armi e bombe, quando lì mancava innanzitutto la luce elettrica. Se li avessimo spesi per quello, oggi forse ci sarebbe la democrazia: la guerra nasce dove vengono tradite le promesse di benessere della popolazione.

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