“Avendo allestito un ambulatorio a Corinto accanto alla piazza, annunziò pubblicamente che era in grado di curare i sofferenti con i discorsi e dopo essersi informato dei motivi della sofferenza, confortava i malati.”
A raccontarci questo aneddoto è Platone, il quale (forse involontariamente) ci pone dinnanzi al primo “terapeuta” a cui la storia rende una giustizia “scritta”. Antifonte, oratore e filosofo, era conosciuto proprio per la sua “terapia verbale” con cui riusciva a curare le ferite non inflitte da lance o frecce. Come ricorda il filologo Bignone: «La morale sua è morale di prudenza, di difesa contro il dolore», come se si potesse sfuggire dal dolore, “vaccinandosi” ed evitando sofferenze all’anima. Era il V a.C. e già l’uomo cercava escamotage per evitare “il confronto”, ovvero ciò che Elisabeth Kübler-Ross definisce come “accettazione” nelle sue cinque fasi dell’elaborazione del lutto.
L’accettazione, come dimostrato dall’Acceptance and Commitment Therapy, «non è un atteggiamento nichilistico auto-distruttivo; né un tollerare il proprio dolore, o il sopportarlo, ma è un vitale e consapevole contatto con la propria esperienza».
Ad oggi, è sempre più complesso “accettare” il proprio dolore, soprattutto se all’interno della comunità del Web, da cui è impossibile estromettersi, il solo parlarne è segno di riso e sdegno come nei milioni di casi di cyber-bullismo. Per accettare la propria malattia, che sia mentale o fisica, c’è bisogno del supporto di professionisti che sappiano “ascoltare” e non solo “sentire”.
Per comprendere meglio questa complessa tematica, con l’aiuto di Silvia Bottero, abbiamo intervistato la dott.ssa Elena Cossu, psicologa, psicoterapeuta gestalt-analitica, sessuologa, e la dott.ssa Camilla Granata, laureata in Psicologia e Salute presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza.
Per quale motivo, le malattie mentali non hanno la stessa valenza di quelle che danneggiano il corpo?
Partiamo dal significato stesso di “psiche” (der. dal greco psykhḗ “anima”), e appare chiaro che il campo che si intende approfondire appartenga ad un ambito osservabile solo ed esclusivamente nel momento in cui si manifesta.
Quindi di intangibile senza il corpo.
La nostra contemporaneità, vantando spesso l’efficienza della mente rispetto alla profondità del sentire emotivo a cui essa da significato, porta a dimenticare che noi siamo esseri psicosomatici; ed il corpo non fa altro che da eco a disagi radicati molto più a fondo.
La scissione tra mente e corpo, avviene principalmente sulla base del fatto che esso abbia una tangibilità e si possa quantificare in categorie, rinchiudendolo in schemi ben strutturati; mentre tutto ciò che non si può osservare, risiede nella psiche e appare distante dal tutto.
Gli studi sul cervello, la psichiatria nascono in necessità al voler, in qualche modo, spiegare, misurare quanto succedesse all’interno della mente.
Psicologia e Psicoterapia, tendendo ad affrontare qualcosa di intangibile, vengono in qualche modo subordinate.
Esse diventano tangibili e toccabili attraverso la malattia che produce dei sintomi che tu in primis puoi riscontrare.
Il corpo reagisce; è un correlato fisiologico al sentire emotivo.
Quando ci dimentichiamo della mente il corpo si smuove e da segnali che vengono riconosciuti e tradotti tramite i sintomi.
Viviamo nel mondo della perfezione e non c’è spazio neanche per viversi il dolore
Abbiamo sempre a disposizione farmaci per sedare quello che è il sentire che non è solo positivistico.
Il sintomo psichico è ciò che non si vede, ma agisce.
Vi è una (re)azione nel corpo.
Ci descriviamo sempre in uno dei due estremi a seconda delle esigenze che noi andiamo a vivere di noi stessi.
In un dolore fisico possiamo rivelare qualcosa di più profondo.
Trasformare dal sintomo al simbolo.
Da ciò che accade a ciò che tiene insieme i significati degli eventi attraverso un’unica spiegazione.
Come mai ad oggi, dire di andare in terapia risulta un tabù per la società?
Risulta un tabù anche e soprattutto, per via della storicità e di come viene interpretata la malattia mentale. Solitamente coloro che non risultavano idonei alla normalità sociale, erano relegati: costretti a nascondersi e ritenuti difettosi.
La dignità che hanno acquisito, deriva da battaglie, da studi, da tempi molto lunghi; diluiti nella stigmatizzazione stessa della nostra società, in cui mostrare una debolezza diviene passibile di critica, se la norma è la perfezione e l’efficienza sistematica.
La malattia nasce quando un equilibrio organismico viene a mancare.
Eppure, guardandola da un altro punto di vista, in alcune tribù legate ai culti primitivi, il malato era un tramite del divino; inteso come “essenziale di ciò che risiede in noi”.
È l’illuminazione della tua individualità, assolvendo a quelle filosofie che pongono l’equilibrio del proprio io come centro di ricerca. Quando dimentichiamo ciò che siamo, il nostro binomio anima-corpo, dimentichiamo anche ciò che portiamo dentro di noi. Se guardiamo alla moltitudine delle divinità della religione greca antica, possiamo quasi addurre la possibilità che ognuno di loro incarni una caratteristica specifica della psiche ed ogni aspetto dell’essere umano.
È ricongiungersi ad essi che fa scaturire l’equilibrio desiderato.
Il culto della malattia mentale: perché è fascinoso possederne una e poterne dare sfoggio?
Suppongo che sentirsi riconosciuti all’interno di un’appartenenza, faciliti il non-sentirsi soli; una categoria sintomatologica e psicopatologica a cui fare riferimento.
Identificarsi nella malattia perché al contrasto nell’iper-sanità tra apollineo e dionisiaco; dicotomia tra genio e follia, in cui la malattia sublimata viene tradotta e diviene punto forte di colui che la possiede.
Ogni estremo richiama il suo opposto manifestandolo.
Da sicurezza essere categorizzati quando hai bisogno di essere contenuto in un contenitore (sociale).
Ma questo non sarebbe di per sé eco di un bisogno?
Il genio e il folle non vogliono esserlo, perché non lo scelgono.
È questo a renderli tali.
Quanto influenza la nostra contemporaneità il nostro andamento psicologico? Quanto il Covid-19 ha intaccato la nostra psicologia? Come viviamo lo spazio psichico oggi?!
Pensiamo a Bauman, al suo concetto di società liquidacon la perdita del contatto reale a favore dell’iper-connettività, che permette di raggiungere senza entrare però in una profondità di relazione.
Vediamo quindi come si vada ad anestetizzare l’interno, per favorire un’overdose dall’esterno.
In questo modo sono convinto di mostrare al mondo quello che provo, senza però esserne consapevole io; contatto senza un contatto, con il risultato che non vi siano relazioni create nel tempo e con uno scambio che permetta un’espansione della coscienza e conoscenza di ambedue le parti.
Queste modalità moderne, impoverendo il linguaggio, rendono la comunicazione stessa priva del suo intento comunicativo; riducendola ad un rumore di sottofondo.
Siamo sempre meno capaci di leggere e comunicare le sfumature emotive che ci compongono e giustificano la nostra unicità d’essere umani.
Siamo sempre meno capaci di essere in relazione con noi stessi e con l’altro.
L’esperienza del Covid-19, da una parte, ha offerto l’opportunità obbligatoria di fermarci e l’occasione (se colta) di potersi interrogare circa il proprio essere.
Il ri-mettersi a fare il pane (cosa che hanno fatto molti durante il lockdown di Marzo), non è un gesto privo di significato; è il simbolo di un ritorno alle origini. Tuttavia, dovendo guardare entrambi i lati della medaglia in questione, ha portato all’incremento di psicopatologie (depressione, ossessione, ansia, volontà di suicidio etc) di circa il 30%, dati rilevati da uno studio dell’APA – American Psychological Association.
Se da un lato, la distanza sociale e dalle frenesie del mondo, mi avvicina a quelle che sono le mie interiorità; dall’altro sviluppa anche la fobia per l’esterno marcata con conseguenze isolamento dal contatto.
Assistiamo alla paura delle conseguenze che porterà il futuro e a come verranno interiorizzate e restituite nell’andamento psicologico e sociale.
La mente si sviluppa nella relazione ed in relazione con l’altro
Dal momento in cui togli le frivolezze, anche l’anima va curata e non solo il circostanziale.