“La libertà è una divinità nordica, adorata dagli anglosassoni… Il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo più o meno decomposto della Dea Libertà”
Benito Mussolini, “Forza e consenso”, Gerarchia, marzo 1923
Un corpo, quello della “Dea Libertà”, che a fine maggio del 1924 è moribondo: Mussolini governa con una schiacciante maggioranza grazie alla vittoria nelle elezioni politiche di aprile, dove ha ottenuto quasi il 70% delle preferenze. I socialisti sono divisi (i riformisti guidati da Filippo Turati, sconfitti dalla mozione massimalista del XIX Congresso, hanno fondato il Partito Socialista Unitario – PSU), i comunisti isolati, il resto delle opposizioni confuso e impreparato nell’affrontare il nascente strapotere fascista.
Giacomo Matteotti, socialista veneto e segretario del PSU, è una delle risorse che permette a questo corpo umiliato e agonizzante (la democrazia liberale) di rimanere aggrappato alla vita. Dai banchi del Parlamento, Matteotti denuncia la corruzione del fascismo, critica i metodi violenti dello squadrismo e attacca la sua natura antidemocratica. È un instancabile pugile della democrazia e della libertà civili e si rifiuta con tigna di andare al tappeto. Ha passato una vita a combattere per gli ultimi nel Polesine, lui, figlio di un ricco proprietario terriero. Ha cuore e fiato da vendere.
Il delitto
È il 30 maggio del 1924 quando si prende la responsabilità di sfidare frontalmente il fascismo, prendendo parola alla Camera dei deputati per denunciare l’invalidità delle elezioni di aprile, contraddistinte da un clima di terrore paramilitare. Terminato l’intervento, ripetutamente interrotto da minacce e offese provenienti dai banchi della maggioranza, Matteotti pronuncerà, rivolgendosi ai suoi compagni di partito, parole tristemente profetiche:
«Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”
La risposta del fascismo all’affronto del Segretario del PSU arriva pochi giorni dopo. Il 10 giugno del 1924 Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo, membri di un gruppo paramilitare che risponde direttamente al Partito Nazionale Fascista (PNF), rapiscono Matteotti mentre passeggia sul Lungotevere Arnaldo da Brescia.
Nella Lancia lambda dove viene scaraventato, il deputato socialista si dimena e affronta i suoi aguzzini con veemenza, fino a quando Giuseppe Viola strappa via la sua vita con una pugnalata. Lo seppelliscono poi in un bosco nei pressi di Riano, a 25 chilometri da Roma. Il delitto politico del socialista veneto è il compimento di un processo di erosione della democrazia liberale portato avanti dal movimento fascista e costituisce l’inizio di una nuova pagina della storia italiana.
Nei mesi che seguono l’omicidio, l’indignazione di una parte della stampa liberale e la consapevolezza, nella classe dirigente politica delle opposizioni, che il fascismo rappresenta una minaccia in grado di eliminare fisicamente i propri avversari, non compromette la scalata al potere di Mussolini il quale, pur non avendo commissionato direttamente l’assassinio dell’onorevole Matteotti, si trova a capo di un movimento che è espressione di una violenza incontrollata.
I processi
Nel processo farsa che si tiene a Chieti tra il 16 e il 24 marzo 1926, Malacria e Viola vengono assolti, mentre Dumini, Volpi e Poveromo sono condannati a scontare 5 anni, 11 mesi e 20 giorni di reclusione per omicidio preterintenzionale (condanna che però non sconteranno del tutto grazia alle amnistie).
Finita la guerra, nel 1947 la Corte d’Assise di Roma ripete il processo: Dumini, Viola e Poveromo vengono condannati all’ergastolo mentre Malacria viene “salvato” dall’amnistia Togliatti. Poveromo muore in carcere nel 1953, anno in cui, grazie all’amnistia del governo Pella (DC), Dumini viene scarcerato. Gli sarà concessa la grazia tre anni dopo.