In un paese normale a un senatore della Repubblica non verrebbe mai in mente di sedere anche sulla poltrona più importante di una redazione. In un paese normale la distanza che la stampa è giusto che tenga dalla politica dovrebbe essere ben chiara a tutti, non permettendo asservimenti e strumentalizzazioni di nessun tipo.
Questo perché, in una democrazia, il giornalismo è la “sentinella” che, con fermezza, vigila sul potere, denunciandone le storture e le ingiustizie.
Negli ultimi anni, però, ciò che dovrebbe essere scontato sembra diventato un’utopia, avendo – la politica – relegato alcuni giornali a meri organi di propaganda, con i rispettivi direttori, ormai, dei militanti intransigenti molto più interessanti a portare avanti le istanze di una parte che a fare un’informazione degna di questo nome.
Lo scenario desta preoccupazione, perché stiamo assistendo a una deriva tale che fa mettere in dubbio – come se ancora ce ne fosse bisogno – l’imparzialità di molti giornalisti.
Certo che, se fino a oggi, però, la politica, almeno formalmente, era rimasta fuori dalle redazioni, gli avvenimenti delle ultime settimane devono spingerci a una riflessione che ha anche natura morale.
Dal primo maggio Matteo Renzi è il nuovo direttore de “Il Riformista”. Un politico, grande protagonista della vita pubblica del nostro Paese, si riscopre direttore. Senza però smettere di sedere in Parlamento e senza abdicare a quel ruolo di leader di partito che tanto bene gli si cuce addosso.
A questo punto è lecito chiedersi a che ruolo è stato relegato “Il Riformista” e quanto la sua redazione riesca a essere indipendente. È lecito chiedersi quale sia la natura delle critiche che su quelle pagine vengono mosse nei confronti del governo o degli ex alleati di coalizione.
È lecito perché in un paese normale Matteo Renzi non dovrebbe dirigere un giornale e, qualora intendesse farlo, dovrebbe rinunciare a tutti quegli incarichi che, per natura stessa dell’uomo, rendono impossibile scindere il politico dal direttore.
L’esempio di Renzi, però, è solo la punta di diamante di un giornalismo che ha sempre di più smarrito la direzione, abdicando al ruolo di sentinella della democrazia e diventare cane da guardia del potere.