C’è una lunga fila all’ingresso della Sala Marte poco prima delle 17.00. La fiera Più Libri Più Liberi si avvia alla conclusione ma c’è ancora spazio per qualche incontro che vale tutto il prezzo del biglietto, come in occasione della lezione di Valerio Magrelli su Jorge Luis Borges e sul suo libro Il mestiere della poesia.
La pubblicazione di questo volume porta in sé il fascino del manoscritto perduto e poi ritrovato, di un testo che sarebbe potuto rimanere esclusiva non replicabile per pochi eletti e invece adesso è tra le nostre mani, grazie alla stampa della Luiss University Press.
Come spiega nella sua ricca introduzione Massimo Sideri, di queste “lezioni americane” che Borges tiene vent’anni prima di Calvino non sono mai esistiti degli appunti scritti: il poeta argentino, dalla vista ormai consumata dall’età, le tenne a braccio. Solo trentatré anni dopo, con il reperomento di un magnetofono che aveva ascoltato e registrato le parole di Borges, fu possibile trascriverne e pubblicarne il contenuto.
A questa panoramica segue una domanda a dir poco impegnativa: perché abbiamo bisogno della poesia? Un interrogativo aperto ed eterno, sempre produttivo, che non pretende una risposta esatta. Così Sideri, accompagnato dall’interprete di lingua dei segni italiana Serena Sbarbati, si fa aiutare dalle parole di illustri poeti e scrittori fino a ribadire l’importanza di mantenere presenti l’enigma della poesia e la nostra responsabilità nei suoi confronti anche in un’epoca iper-tecnologizzata.
Ed è proprio la voce di un grande poeta, Valerio Magrelli, a riempire ora la sala gremita. Lo spunto iniziale riguarda la personale scoperta del poeta argentino a sedici anni grazie a un suo compagno di scuola. Con Borges si scoprono espressioni non pensate paragonabili alle geometrie non euclidee, spazi non topologici rispetto alla narrativa tradizionale. “Sospetto Borges di aver introdotto l’infinito nella letteratura” affermò Blanchot. Come si può non rimanere scottati da uno scrittore simile?
È tale la forza di questo autore da aver prodotto un aggettivo, “Borgesiano”, di grande fortuna. Un aggettivo che rimanda a orizzonti di senso lontani e inafferrabili, biblioteche infinite, dilatazioni dello spazio e del tempo. Tutti effetti prodotti, paradossalmente, da una scrittura fortemente ancorata alla nativa Argentina e da un lessico molto ristretto.
Da qui, la lectio insiste su questioni di carattere linguistico, Magrelli approfondisce in particolare il tema della traduzione.
Innanzitutto, il titolo del libro nella nuova traduzione italiana recupera il carattere di artigianalità e lavorio presente in quello originale (This craft of verse), allontanando l’idea di “invenzione” della precedente edizione.
La traduzione poi è materiale narrativo ricorrente in Borges. Nella sua poetica, essa si offre sempre come regressum ad infinitum (chissà come si rende il latino in lis), come la mise en abyme inaugurata dall’Amleto di Shakespeare. Così accade nelle due parabole (definizione questa di Magrelli) di Pierre Menard e di Averroè: due fatiche che giocano con il significato profondo della traduzione al di là di una semplice opera di traslazione da una lingua ad un’altra
La conferenza trasborda necessariamente il contenuto del libro presentato, che rimane però presente come fondo continuo del discorso. Quella che ci viene restituita qui oggi è una piccola parte di un’identità letteraria complessa e stratificata, di cui “rimane indelebile la vocazione per destabilizzare l’ordine prestabilito”.