Maggioranza assoluta, fumata nera

Anche il quarto giorno di votazioni si conclude con un nulla di fatto. Astenuti, schede bianche, nomi fantoccio. Perfino la tanto attesa maggioranza dalla più facile elezione non porta a un nome condiviso. I partiti prendono altro tempo e trattano, non senza difficoltà. 

Si è abbassato il quorum necessario per eleggere il Presidente della Repubblica: il quarto giorno, così, viene visto dai partiti con favore, perché la scelta risulta facilitata. A ben vedere, tuttavia, la maggioranza assoluta non è un successo su cui brindare votando il presidente; eleggere dalla quarta votazione significa scegliere sulla base di una maggioranza più ristretta. Ovvero una figura meno condivisa, più discussa, che all’inizio non è stata votata in quanto potenzialmente ostacolata da alcuni. È stato davvero necessario arrivare fin qui, con una maggioranza di larghe intese che governa da quasi un anno e una crisi sanitaria, sociale ed economica da affrontare? Peraltro, di fronte ai “no” dei partiti, c’è il rischio della rottura al governo. Lo spettro dei distruttori, di mansione opposta rispetto a quei costruttori che Conte aveva cercato invano per salvare il suo esecutivo bis, aleggia e mette paura a chi, invece, all’attuale maggioranza non vuole sottrarsi. 

L’ironia della sorte ha voluto che tra i potenziali distruttori (forse più a parole che nel concreto, vista la necessità di maturare ricche pensioni a partire da settembre) ci siano proprio i grillini, gli stessi che, invece, si adoperarono a edificare un muro intorno a Giuseppe Conte un anno fa. Oggi, rispondendo negativamente ai nomi proposti da destra, minacciano di uscire dal governo qualora uno di essi venisse votato col loro dissenso, ma con il beneplacito di Renzi e del Misto. Idem Enrico Letta, che pur rappresentando l’istituzionalità al governo, ricatta gli avversari con lo spettro della crisi governativa. 

Senz’altro la rosa di nomi proposti dal centrodestra non è stata delle migliori. Carlo Nordio difficilmente potrebbe essere digerito dai 5 Stelle, così come la Casellati sarebbe invisa alla componente progressista della maggioranza, mentre Marcello Pera risulterebbe troppo avanti con gli anni per condurre un settennato nel pieno delle energie. Salvini, nei giorni scorsi, ha provato a dare le carte: prima l’incontro con Letta, poi con Conte, forse con Pera e ieri sera il vertice con gli alleati dopocena. Alla coalizione serve tempo e il centrodestra deve trovare chi possa appoggiare i nomi proposti con numeri tali da superare quota 504, senza però generare burrasca nell’esecutivo. 

Draghi, nel frattempo, resta a guardare. Anche qualora egli voglia il Colle, i partiti preferiscono la stabilità del governo. Nel mare calmo si naviga meglio. Traslocato l’ex Bce, la partita si giocherebbe, in tempi di Quirinale, sul capo dell’esecutivo. E lì volerebbero molti più stracci di ora. Scegliere Draghi, dopo aver tentato altri nomi a oltranza, sarebbe il segnale definitivo della morte della politica e della supremazia della tecnica. Con un’aggiunta: quella fumata non sarebbe bianca, ma grigia. Quell’uomo tanto acclamato e voluto al suo arrivo, dopo appena un anno selezionato a mo’ di ripiego. Ne varrebbe la pena?

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