L’arrivo del coronavirus in Italia ha acceso i riflettori sulle difficoltà del Paese nell’affrontare l’emergenza virale. Con gradualità, l’infezione è diventata notizia, è giunta alle nostre orecchie, è penetrata nelle nostre case e ha ostacolato la razionalità dei nostri pensieri. Soprattutto, in tempi correnti deve essere stimolata una riflessione imprescindibile sulla nostra impotente fragilità: gli uomini si credono invincibili, eppure non lo sono. Un virus, invisibile agli occhi e percettibile solo tramite un sofisticato microscopio, un’entità inconsistente cioè, è in grado di ergere barriere fra noi e il mondo esterno. L’essere umano, padrone dell’economia e dei meccanismi del pianeta, è indifeso.
Un maestro del passato, Seneca, nel De brevitate vitae scriveva: “Noi viviamo come se dovessimo vivere sempre, non riflettiamo mai che siamo esseri fragili”. In tempi di virus, tale insegnamento diventa più che mai valido. La brama di pretendere una vita non solo duratura, ma in certi casi anche pressoché eterna, nella convinzione che le uniche capacità umane porteranno a un mondo migliore, è una prigione dorata che offusca la vista. Vivere come se dovessimo vivere sempre ci rende pretenziosi, anziché consapevoli che ogni solco tracciato nel terreno resterà come un segno del nostro passaggio. La pretesa che ne deriva è avere tutto e subito, nonostante la certezza di potersene appropriare in futuro, se davvero vivremo sempre.
Siamo spavaldi nella nostra armatura di acciaio; non rinunciamo alla socialità e non assumiamo le responsabilità che derivano da un’emergenza, come quella del Covid-19. Tutto ciò, che è fuori di noi, non accade. O se accade, non ci riguarda. Come delle monadi, curiamo i nostri spazi, disinteressati al fatto che l’egoismo può generare pluralismo, attualmente contagioso.
Un puntino sensibile solo in laboratorio, come da incipit, porta con sé scaffali vuoti, farmacie nella confusione, cacce agli alimenti di prima necessità, per di più cibi in scatola, cosicché possano conservarsi integri il più a lungo possibile. Ma il virus ha fatto sì che in scatola finissero perfino gli uomini. E che la loro supponenza smargiassa svanisse. Scatole che comprano scatole: una matrioska che fa riflettere e rabbrividire. La stazione di Milano, fino a due settimane fa pista olimpionica di maratoneti della Borsa in giacca e cravatta, è diventata una via di fuga dall’isolamento regionale. Tornare al sud, da dove si è partiti. La storia di un ritorno a casa, di quelli senza lieto fine, forse addirittura proprio senza fine.
Il barlume di luce, nel buio della narrazione finora scritta, viene dal passato, ovvero dalle parole di Blaise Pascal: “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante”. Il pensiero e la ragione sono le sole armi di cui l’uomo deve servirsi, oggigiorno. Informare con serietà, preparare contromisure ad hoc, produrre vaccini e studiare, studiare tanto. Saranno giorni di otium, per molti. Gli impegni formali scemeranno e verrà la noia, come la intendeva Leopardi, ossia capacità di desiderare pienamente. Desideriamo cultura e, come sempre, una pagina ci renderà più liberi e sicuri di un vuoto destinato a rimanere tale.