Ho visitato recentemente la mostra di Giovanni Fattori – uno dei miei pittori prediletti – allestita a Bologna nel Palazzo Fava e tutt’ora aperta fino al mese di maggio. Circa settanta sono le opere esposte; non vi compaiono molte delle più conosciute e iconiche quali In vedetta, Barrocci romani, Lo Staffato, a vantaggio di altre meno note, in gran parte provenienti da collezioni private.
Molte di esse rappresentano campagne toscane, spesso popolate da contadini, butteri, buoi e cavalli, ed è grande la suggestione che comunicano questi paesaggi ottocenteschi non ancora violentati da tralicci, autostrade, capannoni e in generale da tutto ciò che il progresso vi ha sovrapposto.
Uno di quei dipinti ha maggiomente attratto la mia attenzione: Lo spaccapietre, che raffigura uno di questi umili lavoratori mentre seduto a terra consuma la sua quotidana fatica. Il dipinto ha lo stesso titolo di uno dei racconti di Renato Fucini che compongono la raccolta Le veglie di Neri.
Il quadro di Fattori e il racconto di Fucini – entrambi di ambientazione ottocentesca – ritraggono l’umile spaccapietre, piegato dalla fatica e intento al suo alienante lavoro. Per quanto si possa essere cinici è difficile non commuoversi leggendo il racconto di Fucini, in cui il povero spaccapietre non mostra alcun risentimento nei confronti di chi lo ha relegato a quella misera sorte; anzi, per due volte definisce il datore di lavoro “vero galantuomo” e quasi con allegria racconta dei pochi spiccioli che quello talora gli elargisce in più rispetto alla misera paga stabilita. E ancora più tenerezza desta la risposta che lo spaccapietre dà alla domanda su quale sarebbe il suo maggiore desiderio: “Una fetta di pane bianco per darlo inzuppato alla mi’ vecchia che non ha più denti.”
Certe scene erano frequenti nell’ottocento, mentre oggi – siamo portati a ritenere – sono scomparse per effetto da un lato delle conquiste sociali e dall’altro dei motori e della tecnologia che tante fatiche risparmiano all’uomo. Tuttavia non possiamo non pensare ai lavoratori di tante miniere africane o sudamericane, agli operai che sotto un sole cocente hanno costruito gli stadi per il mondiali del Qatar, o, per rimanere più vicini a noi, ai rider che vediamo pedalare a mezzanotte sotto la pioggia o la neve con svariati gradi sotto lo zero.
Lungi dal volere qui risolvere, e neppure affrontare, un problema troppo grande, mi limito a una domanda destinata a rimanere senza risposta: se potessimo vedere gli odierni schiavi, gli odierni spaccapietre ritratti dal pennello di Giovanni Fattori o dalla penna di Renato Fucini proveremmo il desiderio di fare qualcosa in più – ciascuno nel proprio anche modesto ambito – per cercare di alleviarne le sofferenze?