L’insostenibile fragilità dei Campi Flegrei e delle istituzioni italiane

“Che cos’è la vertigine? Paura di cadere? Ma allora perché ci prende la vertigine anche su un belvedere fornito di una sicura ringhiera? La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura”. L’indimenticato Milan Kundera descriveva così il rapporto tra l’essere umano e le sue afflizioni interiori, spiegando in maniera chiara e concisa come sia parte rilevante della nostra natura quella singolare attrazione verso lo sbaglio, quel desiderio di resa e tracollo in salsa icariana.  Un concetto da prendere in prestito ed applicare, implicitamente, alla realtà dei nostri giorni, tramutando in modo velato il significato di quella leggerezza – intesa come principio chiave dell’esistenza – in fragilità nuda e cruda.

Al di qua dei confini che ad alcuni piace tanto rimarcare con un certo orgoglio, la pura essenza della vulnerabilità è rintracciabile grossomodo in ogni angolo e pertugio della povera patria, sfigurata dall’apatia e dalla noncuranza. Il materiale di certo non manca: la stretta attualità ci dona almeno un caso a scadenza bisettimanale; ora è il turno dei Campi Flegrei, a dirla tutta un grande ritorno, perlomeno per coloro che sono ancora abituati a leggere, informarsi o quantomeno ad aggiornarsi. Sì, perché il preoccupante sciame sismico raccontato e registrato in quest’ultimo mese affonda le proprie radici nel “lontano” 2005, annata in cui è tornato alla ribalta il cosiddetto bradisismo – fenomeno geologico sconosciuto ai più e che potremmo banalmente definire come una sorta di “respiro vulcanico” – in seguito al quale buona parte del suolo si è sollevata, soprattutto in alcuni punti, di oltre un metro.

Le varie scosse di terremoto avvertite tra fine settembre ed inizio ottobre, le più rilevanti di magnitudo 4.2 e 4.0 (le più forti degli ultimi 39 anni), sono dunque legate all’intensa attività vulcanica nell’hinterland partenopeo, territorio che nel corso dei secoli ha vissuto un drastico cambiamento morfologico. Di fatto, in una zona etichettata esclusivamente dal pericolo Vesuvio, a farla da padrone è il supervulcano dei Campi Flegrei, una connotazione da film fantascientifico ma che del fattore “comedy” ha davvero ben poco; al mondo esistono tra le 10 e le 12 caldere di questo tipo (es. Yellowstone negli USA e il Lago Toba in Indonesia) ed una loro eventuale eruzione – di proporzioni enormi rispetto a quella di un vulcano standard – provocherebbe conseguenze inimmaginabili per il pianeta: dalla radicale modifica del paesaggio circostante ad un perentorio cambiamento climatico mondiale, prolungato nel tempo.

Un cataclisma in piena regola ma che, secondo gli esperti, non è attualmente nei piani del supervulcano in questione, il quale ha generato una simile emissione di lava e gas circa 39.000 anni fa: oggi uno scenario simile spazzerebbe via ogni forma di vita esistente nel raggio di molti chilometri. All’eruzione dell’Ignimbrite Campana, sono seguite quella del Tufo Giallo Napoletano (circa 15.000 anni fa) ma soprattutto quella del Monte Nuovo, datata 29 settembre 1538, la più recente: entrambe, va specificato, d’intensità minore. Tuttavia, al pari di un terremoto, risulta impensabile annunciare come e quando avverrà eventualmente un’eruzione vulcanica; in merito all’area flegrea, l’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) indica infatti come “non sia possibile prevedere a lungo termine quando ci sarà la prossima eruzione, ma grazie alla sorveglianza del vulcano è possibile rilevare con ampio anticipo l’insorgenza di fenomeni precursori, che generalmente precedono un’eruzione, e procedere quindi all’evacuazione”.

Eccola la “parolina magica”: evacuazione. Un termine piuttosto inflazionato in questi giorni nei palazzi del potere napoletano. Al centro della vicenda vi è un’ampia fetta di territorio ad ovest del capoluogo campano, che include svariati comuni della provincia situati lungo una superficie terrestre attiva, il cui diametro è pari a 15-18 chilometri: la grande caldera dei Campi Flegrei, alimentata da diverse potenziali bocche eruttive, è a tutti gli effetti una zona residenziale che nel corso degli anni ha visto un notevole incremento del patrimonio edilizio; di conseguenza un’ipotetica evacuazione di circa mezzo milione di abitanti diventa assai complessa.

Ciononostante, metà Paese – esponenti di governo inclusi – è intento a filosofeggiare sull’importanza di una pesca da spot pubblicitario (con tanto di prove social), mentre le voci di buona parte di amministratori locali, al pari del sottosuolo flegreo, si accavallano tra loro. “Serve un’informazione corretta”, “Crisi sismiche non sono precursori di un’eruzione”, “Un decreto sarà presto all’esame del Consiglio dei Ministri”, questo un brevissimo, forse scontato, estratto firmato da alcune personalità politiche presenti questa mattina in audizione alla Camera dei Deputati, in Commissione Ambiente. Va detto, si tratta di un timido passo verso la discussione del problema (che in un Paese normale sarebbe già stato posto al centro del dibattito, ma è inutile far finta di vivere in un Paese normale); tuttavia, come ben sappiamo le chiacchiere se le porta via il vento, e quello che soffia su Napoli e dintorni appare alquanto rovente.

Per carità, vanno prese obbligatoriamente le distanze da qualsiasi forma di allarmismo (o peggio di menefreghismo), poiché tutte le questioni delicate vanno fronteggiate con una discreta dose di equilibrio e prudenza, se ne facciano una ragione i fondamentalisti del noncielodikono e i Signor No di turno; in fondo, la saggezza popolare – quella autentica – ci narra di come sia meglio prevenire che curare, piuttosto che concentrarsi su frivolezze o nascondere la polvere sotto al tappeto. Occorre un focus attento e scrupoloso, un monitoraggio costante sui Campi Flegrei da parte delle alte sfere istituzionali, in nome della sicurezza, della tutela degli individui e dei relativi beni. Nulla più.

Ad ogni modo, va analizzata la realtà dei fatti per quella che è: 1) il piano di evacuazione non è aggiornato (risale al 2019): andrebbe revisionato e completato con una certa urgenza, prima che la regola non scritta del “ci voleva il morto” possa aspirare a divenire realtà; 2) la popolazione interessata sta giudiziosamente richiedendo delle prove di esodo attraverso il macro-megafono dei social, in relazione alle continue scosse di terremoto segnalate: si attende un responso; 3) fino a che punto potranno reggere gli edifici perennemente sollecitati dal sisma di cui, come confermato da autorità altamente qualificate, non s’intravede la fine? Quesito dal riscontro obiettivamente incalcolabile; 4) scenario peggiore, che ci auguriamo resti un’ipotesi remota: in caso di sisma e/o eruzione di livello critico, l’Esecutivo sarebbe pronto ad affrontare una simile emergenza? Ammesso che la questione “pesca” non prenda definitivamente il sopravvento, s’intende.

Casi intricati a cui le istituzioni debbono porre immediatamente rimedio, cercando di rispondere alle esigenze e alle richieste di cittadini spaventati da una repentina escalation, in più di un’occasione costretti a rifugiarsi, nel cuore della notte, “al sicuro” della propria automobile o a combattere con abitudini spiacevoli, crepe insidiose e calcinacci alati, magari chissà, anch’essi pregni di vertigini, col desiderio di cadere e dai quali alcuni uomini si difendono con la paura, altri con l’indifferenza: visione emblematica che spiega come l’azione della natura preoccupi tanto quanto la reazione dell’essere umano.

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