L’infinito: un film scritto in due, tra chiacchierate al telefono e pranzi tra amici

Le conosciamo tutti le interminabili chiacchierate al telefono con quell’amico a cui affidiamo le nostre lamentele e ansie quotidiane. Specialmente in quelle giornate interminabili, di stanchezza profonda in cui, se si aggiunge anche il meteo avverso, il traffico interminabile, il collega ostile o qualsiasi altro ostacolo indipendente da noi, impazziamo.

Allora, in questi casi, il malcapitato è costretto ad ascoltarci e confortarci.

Nel peggiore dei casi, ai nostri piagnistei si aggiungeranno i suoi e tutto ci lascerà cadere in un baratro desolante, niente che un buon riposo o un cocktail con gli amici non possa risolvere. 

Tuttavia, se questi due amici qui sono uno sceneggiatore e un regista, entrambi da Oscar, da quella chiacchierata ne uscirà un lungometraggio scritto a quattro mani. 

Questi due amici sono Umberto Contarello e Paolo Sorrentino e il film in questione è L’Infinito, presentato il 26 marzo al Bif&st. 

“Ciclicamente, sia io con Umberto che Umberto con me, ci lamentiamo.

Forse, più Umberto con me: quelle telefonate in cui uno decide che il mondo ce labbia con lui, sono momenti che attraversiamo tutti. Forse, in quel periodo, le lamentele erano più insistenti del solito; allora, mi sono detto di capovolgere questa cosa e renderla proficua. Ci è venuto in mente, chiacchierando, che sarebbe stato bello fare un piccolo film, partendo da Umberto protagonista, essendo lui anche un attore che definirei capace, naturale e dotato.”

Afferma Paolo Sorrentino, confermando la versione già esposta da Umberto Contarello.

D’altronde, spiega Contarello: “I momenti vuoti sono quelli in cui, apparentemente, non accade nulla; ma che, anche a distanza di tempo, si rivelano inconsapevolmente i più fertili”

La storia della nascita del film si arricchisce del racconto dei particolari di Paolo Sorrentino: una collaborazione basata sull’effetto sorpresa continuo, senza imporsi nulla ma lasciandosi stupire come fossero i primi spettatori l’un dell’altro. Se proprio si dovevano definire i dettagli, lo si faceva a pranzo, come due cari amici. 

La complicità tra i due è tangibile in queste parole di Sorrentino “Noi due abbiamo sempre cercato di farci ridere” e di Contarello: “A me e Paolo, spesso, fanno ridere cose che non farebbero ridere nessuno. La risata è un atto fuori da sé, sorprendente; quindi, è un improvviso denudarsi, qualcosa di molto intimo.”

Nel film non manca questa ricerca del ridere collegata allo stupore ma anche al clima grigio; meglio definibile, secondo Sorrentino, come “dimensione ridanciana della tristezza”.  

L’Infinito è un’esaltazione delle cose considerate inutili nella società odierna, porta in scena la densità del vuoto.

Lo si fa poeticamente, in bianco e nero, con velate, e a volte esplicite, citazioni a autori classici, opere d’arte; ma anche con azioni di vita quotidiana esaltate dallo sguardo giusto: quello dell’artista che vive nel mondo ma non si lascia assuefare da esso. 

Il film orbita attorno a Umberto- un personaggio che trae molto dallo sceneggiatore reale ma rielaborato perché, come ci insegna Paolo Sorrentino, le autobiografie risultano abbastanza noiose se non adornate da bugie.

Realtà e ricostruzione cinematografica si fondono nel racconto della vita di uno sceneggiatore di successo al tramonto della sua carriera. Con il correre della trama, l’apparente nulla si rivela essere sostanzialmente tutto, così come le bugie si svelano come le verità più interessanti.

Per Umberto, personaggio del film, tutto appare nuovo, concedendosi alla trasfigurazione cinematografica; persino quel lavare i vetri “in modo antico” di una giovane suora, che tanto lo affascina nel film.

E se questo può apparire infantile è perché, di fatti, lo è.

“Se si vuol fare questo lavoro si deve essere un po’ infantili, aver conservato la capacità tipica degli infanti di stupirsi. Sarebbe strano per me incontrare uno sceneggiatore che ha un rapporto regolare con la vita, non il contrario.” Afferma Sorrentino.

Il pericolo è dietro l’angolo e come un morbo oggi impesta il lavoro di sceneggiatura: quello di svolgerlo in maniera impiegatizia.

Ugualmente -come mostra il film stesso attraverso il personaggio della giovane sceneggiatrice che Umberto aiuta nella stesura del suo primo film- è divenuta malsana quella ricerca spasmodica di un turning point.

L’aderenza ossessiva a questa e altre strutture, come espone Sorrentino, non appartenevano al cinema europeo poi “americanizzato”. 

Lo confermano le parole di Contarello: “In Foxcatcher- un film che ho molto apprezzato- suggeritomi di Paolo- ad esempio, non c’è un turning point palese, o è nascosto da una sabbia poetica e non esce come un cliscé.”

Nel film lo scontro generazionale tra la giovane sceneggiatrice e Umberto conduce a una conclusione netta: “Siamo diventati vecchi e con noi il cinema che ci piace”. 

Sia Contarello che Sorrentino condividono appieno questa idea. Forse perché, come spiegano entrambi, da giovani si è onnivori, costantemente curiosi e alla ricerca di una strada, o forse perché gli anni Novanta sono stati gli anni d’oro del cinema, secondo Sorrentino. 

Quindi quel cinema lì è destinato a morire? Forse è già morto? Ai posteri l’ardua sentenza. 

E se vorrete “sentenziare” meglio, concedetevi alla visione del film che uscirà al cinema il 15 maggio.

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