L’indie non è morto, ha solo tanti nipoti

L’indie è morto. E’ questo il concetto in cui ci si è imbattuti più facilmente nell’ultimo anno sulle riviste di costume, sulle pagine social dedicate e nei locali underground, in cui si dibatte sulle sorti della cultura musicale alternativa con una birra in mano e in sottofondo proprio i Thegiornalisti. Perché, per quanto se ne possa dire, l’indie, ovvero quel genere musicale prodotto da etichette indipendenti dalle grandi corporation, è un fenomeno ad oggi inarrestabile, passato con una sorprendente parabola ascendente dall’essere velleità di nicchia a vero fenomeno di massa. A confermarlo sono non soltanto i dati sulle vendite e gli ascolti streaming forniti dagli esperti del settore, ma anche più semplicemente una serie di avvenimenti non trascurabili accaduti nel panorama culturale italiano tra il 2016 e il 2018.

A seguito dei numeri da record collezionati dagli artisti indipendenti, che ottengono milioni di visualizzazioni su Youtube e registrano sold out ovunque nei loro tour, i giornali hanno iniziato a chiedersi quale sia il segreto dell’indie. Anche la televisione ha dato ampio spazio al fenomeno: Che tempo che fa, la trasmissione della domenica sera su RaiUno condotta da Fabio Fazio, ha ospitato alcuni tra i più celebri esponenti del genere, da Coez a Calcutta passando per Thegiornalisti; dal 2016 XFactor ha accolto nella sua giuria l’artista bandiera dell’indie italiano Manuel Agnelli, frontman del gruppo rock alternativo Afterhours, fondatore dell’etichetta Vox Pop e ideatore delle cinque edizioni del festival di musica alternativa Tora! Tora!; da Aprile 2018 su RaiTre è andato in onda Brunori Sa, programma in 5 puntate scritto e condotto dal cantautore Dario Brunori; la sessantottesima edizione del Festival di Sanremo ha avuto per protagonisti indiscussi i ragazzi della band Lo Stato Sociale. Anche alcuni tra gli eventi musicali più rilevanti della scena culturale italiana hanno aperto le loro porte al genere: il Concerto del primo maggio 2018 a Roma, tra big ed esordienti, è stato caratterizzato da una forte impronta indie, radunando i fan di Cosmo, The Zen Circus, Canova, Ghali, Motta, Gazzelle, Frah Quintale, Willie Peyote, Galeffi, Fast Animals and Slow Kids, I Ministri e molti altri; la decima edizione del Rock in Roma ha accolto nella sua lineup Coez, Carl Brave x Franco 126 e Lo stato sociale, travalicando lo spirito squisitamente rock che l’ha sempre caratterizzata, “in virtù dell’importanza che il genere indie ha assunto nel panorama italiano come tendenza”. Completa il quadro il circuito radiofonico, che vede grandi network nazionali come Deejay avere in programmazione brani indie; il 21 giugno scorso ha aperto al genere anche la Rai, con la creazione del canale dedicato RaiRadio 2 Indie che va ad aggiungersi al lavoro di Radio Sonica, prima emittente italiana dedicata principalmente alla musica prodotta fuori da logiche mainstream.

La musica indipendente fa tendenza: un’espressione quasi contradditoria, se pensiamo alle radici culturali da cui l’indie proviene e ai valori che ne hanno caratterizzato la lunga storia. Dai primi movimenti giovanili anni Sessanta in cui era espressione dei baby boomers, i figli della classe media che affollavano le università e imparavano a vedere le grandi corporation dell’industria discografica come fornitori egemoni, nell’accezione gramsciana, di cultura di massa, passando per il punk anni Settanta che con un’estetica scioccante esprimeva la volontà di rottura con una società consumistica, che poteva essere scossa solo attraverso le autoproduzioni e la ricerca di un’indipendenza artistica che restituisse vigore al rock affievolito dagli artisti patinati. Quella dell’indie è una storia fatta di autenticità opposta alla mercificazione dell’industria culturale, di difesa della libertà di espressione artistica rispetto alle limitazioni poste in essere dalle grandi corporation, di emancipazione, di presa di coscienza generazionale e espressione del disagio, soprattutto giovanile. Valori che la musica che oggi definiamo indipendente sembra incarnare solo in parte.

Artisti entrati nell’immaginario collettivo, che impazzano sul web con brani diventati simbolo dei nuovi linguaggi: Fine dell’estate dei Thegiornalisti e Oroscopo di quel Calcutta che lo scorso luglio ha riempito l’Arena di Verona. Un riassunto di quelli che potremmo definire oggi i tratti distintivi del genere indie, un concentrato di malinconia un po’ vintage, fatto di testi apparentemente semplici e diretti, ritornelli che entrano in testa e non ne escono più, una ripresa della tradizione cantautorale italiana che si distanzi dal nazionalpopolare sfornato dai talent show, l’uso di un racconto ancorato alla quotidianità, che trova il proprio punto di forza in scene banali in cui chiunque possa rispecchiarsi (si muovono i gatti tra secchioni e vetri rotti e la gente prende i mezzi fra i batteri e fra i ritardi – Oroscopo), nell’esaltazione del sentire emotivo (il profumo dei capelli suoi / mamma che fitta allo stomaco / non riesco a muovermi bene / la mia malinconia è tutta colpa tua – Fine dell’estate) e nell’elogio della mediocrità (non ho lavato i piatti con lo Svelto e questa è la mia libertà) e del provincialismo (riferimenti a Pesaro, Peschiera del Garda, Fondi, Ladispoli).

Ma questo genere fatto di pagine patinate sui settimanali e di Instagram fotogenici quanto ha in comune con l’indie propriamente inteso? Poco, a partire dalla struttura delle etichette che lo producono. Basate su un modello manageriale forte che riproduce i meccanismi delle major, con una supervisione continua nell’iter dell’artista, le label indipendenti curano tutti i dettagli organizzativi, dalla produzione del disco alla sua distribuzione, dalla promozione al live, con particolare attenzione nel seguire una certa visione estetica che conferisca appeal commerciale al prodotto artistico, partendo dalla creazione di uno stile visivo, che passa dalle copertine degli album all’abbigliamento, sapendo individuare le tendenze e interpretare il mercato.

Le Major non sono però solo un modello da rincorrere, ma anche un collaboratore: sempre più spesso infatti, gli artisti indipendenti stipulano contratti di autori in esclusiva per le corporation, che esulano dalla loro carriera indie, ma senza dichiararlo al pubblico. Ciò significa che un musicista indipendente scrive una canzone per una grande corporation – come Sony, Universal, Warner – che la passerà ad uno dei suoi artisti mainstream. Quindi ogni volta che quel pezzo andrà in radio – il che sarà molto frequente per un interprete legato al circuito delle major – l’autore indie maturerà dei soldi, derivanti dal diritto d’autore, e con lui l’etichetta indipendente a cui è legato. Questo pone una serie di problemi semantici, in virtù delle radici e della storia della musica indipendente che, come dice il termine, è nata per essere svincolata dalle grandi corporation capitalistiche. E’ pur vero però che gli artisti firmano con un’etichetta indipendente principalmente perché cercano chi investa soldi nella loro musica, e non perché siano alla ricerca di una qualche purezza ideologica, come se essere indie non rappresentasse tanto una differenza di senso quanto uno stadio iniziale della carriera, perché è più semplice farsi notare da una piccola etichetta che da una major. Se così fosse si porrebbe però un nuovo interrogativo: se è solo una questione di maggiore facilità nell’accedere al mercato indipendente, perché gli artisti scelgono di restare comunque con le indipendenti anche dopo aver raggiunto una certa popolarità? Perché se scelgono di lavorare come autori per le major non spostano anche la loro carriera di musicisti con le grandi corporation? Una possibile risposta è che l’artista indie, al di là delle definizioni del genere che possono essere più o meno calzanti, vive concretamente imperniato nel tessuto culturale indipendente, dalla scelta dei circoli e dei locali in cui esibirsi alla collaborazioni con piccole radio di settore, alla partecipazione a festival di un determinato tipo, e raccoglie perciò un pubblico con una certa sensibilità e determinati riferimenti culturali, che potrebbe non apprezzare un cambiamento di rotta così netto come quello rappresentato dal legame con una major.

Quel che conta è che le etichette indipendenti rappresentano per un emergente un’alternativa concreta al talent show per poter avere la possibilità di sfondare, mettendo a sua disposizione non soltanto la professionalità di uno staff che segua ogni passo del percorso artistico, ma anche un budget da investire. E’ alle piccole label che dobbiamo la rifioritura del cantautorato italiano, che sta vivendo una stagione particolarmente intensa.

Oggi la musica indipendente è un fenomeno consolidato, domina le classifiche con le sue molte declinazioni, dal rock all’itpop. Se fino a qualche anno fa era abbastanza semplice definire cosa venisse dal mercato indipendente e cosa fosse mainstream, oggi c’è una fusione, l’indipendente non si vergogna di essere chiamato pop, le major spesso osservano e copiano gli artisti indie – un esempio su tutti l’ultimo album di Francesca Michielin prodotto dalla Sony -, che sono riusciti a creare un linguaggio diretto che arriva al pubblico, anche attraverso un sapiente uso dei social network. Basta frequentare qualche concerto della nuova scena indipendente per rendersi conto di come questa definizione non si attacchi più addosso perfettamente né a chi suona né a chi ascolta: il pubblico è estremamente variegato, dalla sedicenne alle prime uscite dopo cena al trentacinquenne con la barba lunga, e forse proprio questa varietà che abbraccia più target è la conferma che la musica indipendente è diventata trasversale, popolare, pop. Il problema dunque sembra terminologico: al di là delle distinzioni tra i generi che si sono fatte sempre più labili, in un contesto in cui sembra che l’attitudine – per esempio nei testi delle canzoni – sia rimasta indipendente legandosi però a una popolarità mainstream, che quindi non è più espressione di nessuna sottocultura specifica, forse non è corretto identificare un determinato tipo di musica col termine indie, quanto piuttosto lo sarebbe utilizzare una definizione più ampia tra le tante proposte dai critici, come quella di itpop. Il termine ha iniziato a circolare nelle riviste specializzate da un paio di anni, ovvero da quando alcuni artisti nati nell’ambiente indipendente hanno rotto le barriere che delimitavano il confine e si sono lanciati nel pop collezionando un tormentone dopo l’altro, ospitate nei talent show, le prime posizioni nelle classifiche radiofoniche e contratti con le Major. Non esiste una definizione unanime di cosa significhi itpop, è un grande contenitore in cui confluiscono artisti anche distanti tra loro, che vanno da alcune forme di trap, alle ballate, al brano introspettivo con riferimenti colti, ma sempre con la presenza di una forte impronta cantautorale e riferimenti a un quotidiano semplice, che chiunque possa utilizzare come didascalia delle proprie foto su Instagram. Esattamente le caratteristiche che elencavamo all’inizio come identificative della nuova musica indie. Perché come Shakespeare suggerì alla sua Giulietta, non è il nome a cambiare il profumo di una rosa. Ma la storia di un genere musicale forse sì.

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