Il racconto di Miryam Gison, libraia di San Giorgio a Cremano e organizzatrice del festival “Ricomincio dai libri”, è un pensiero che dura poco, ma si insinua nella mente del lettore, innescando ragionamenti sulla situazione attuale delle librerie e della cultura in generale, in particolar modo per quanto riguarda il territorio campano.
I toni ironici, in realtà, celano una situazione ben nota ai librai indipendenti italiani: le preoccupazioni economiche, di fronte al mostro delle vendite online, e nel marasma generale creato dai social network, portano i protagonisti di questo mondo a interrogarsi sul proprio futuro, e sui nuovi modi per mantenere salda la propria comunità.
Tali temi emergono durante la presentazione del racconto, moderata da Rosario Esposito La Rossa(Coppola Editore) al Salone del Libro di Torino, poi approfonditi da Miryam durante la nostra intervista.
Come è nato questo libro?
È stato scritto per il premio Troisi, dedicato ai racconti ironici, ma durante la stesura ho realizzato che avevo bisogno di raccontare altro: questa storia, che non è la mia, seppure molto vicina, è emersa come un flusso di coscienza. Parla di un libraio in crisi e di tutto quello che c’è dietro una libreria, di ciò che i clienti non vedono. È un racconto nato per caso, infatti non mi considero una scrittrice. Io sono una libraia, e c’è una grande differenza tra fare il libraio ed esserlo: quando lo sei, diventa prioritario il tuo progetto.
Otto anni fa ho aperto La Bottega delle Parole perché ero stanca di vivere in un comune che non avesse una libreria, ma il progetto è complesso da portare avanti; il cliente spesso non realizza il lavoro che c’è dietro, il “chi m’o fa fa” come si dice a Napoli.
In questi anni mi è successo di tutto — tra cui clienti che mi hanno chiesto di utilizzare nella mia libreria la carta fedeltà di Feltrinelli —, e ho voluto creare questo racconto per gioco. Il protagonista è il libraio Antonio, in attività da molti anni e a rischio di chiusura. Ho scelto di renderlo uomo, nonostante vesta le mie scarpe, le gioie e i dolori di questo mestiere, perché quando è un maschio a lavorare è come se il fallimento pesasse il doppio; nella cultura del nostro territorio, sembra che le donne lo facciano per hobby. Attorno ad Antonio ruotano personaggi bizzarri — come la cliente che entra cercando i friarielli e i ragazzi del quartiere —, per far capire che una libreria è il progetto di una comunità.
Oggi, poi, ci sono nuove sfide, prima fra tutti la concorrenza delle vendite online — una cliente, per esempio, veniva in libreria per farsi raccontare le novità e poi comprarle su Amazon: non credeva che nel mio negozio si vendessero i libri esposti!
A volte ci si dimentica che dietro questo lavoro c’è un librario, è un mestiere vero; si dà per scontato, soprattutto in Campania, che la cultura sia un mondo fatto di volontariato. Invece è importante che ci si muova dentro al mercato, rigenerando così un percorso di lavoro, riattivando la macchina culturale in senso economico, fondamentale per poter sopravvivere.
Il racconto ha un tono ironico, nonostante la situazione delle librerie indipendenti sia sempre più minacciata. Tu sei ottimista a riguardo?
Prendo in prestito le parole di uno scrittore amico, Lorenzo Marone: “Sono quarant’anni che mi faccio di speranza”. Io sono un’ottimista nella vita, ma non per questo non ho un quadro oggettivo della situazione. In Campania abbiamo un tasso di lettori tra i più bassi di Italia, così come il potere d’acquisto, dunque, la vita per le librerie è spesso difficile.
La libreria indipendente, poi, è diversa da quella online: gestirla significa creare un presidio culturale in una città, e gli acquirenti sanno che acquistare in sede significa prendere parte ad un progetto del territorio.
Mi considero ottimista: stiamo facendo un lavoro importante con i bambini, la nostra libreria si trova dentro un parco pubblico e loro vengono lì invece di andare sulle giostre, vedo una forte risposta delle nuove generazioni. Tiktok e Booktok, paradossalmente, ci hanno fatto bene; certo, c’è chi dice che non diffondano libri di qualità, ma hanno rilanciato una moda di lettura che per le librerie è benefica.
Quest’anno Ricomincio dai libri approda all’Archivio di Stato di Napoli, una location importante. Come vedi il rapporto tra la libreria e il festival che organizzi? Secondo te, possono aiutarsi a vicenda?
Ricomincio dai libri è nato perché a Napoli la vecchia fiera del libro era ormai defunta. Noi abbiamo iniziato a San Giorgio a Cremano, con dei tavolini di plastica e un budget molto limitato; abbiamo fatto tre edizioni lì e poi ci siamo spostati a Napoli, portando nomi sempre più importanti negli anni (tra i tanti, Erri De Luca, Francesco Piccolo, Daniele Mencarelli, Rosella Postorino, Pif, Diego De Silva.)
Tendenzialmente, tengo separate le due situazioni — per scelta, non sono mai la libreria che vende all’interno della fiera —, però sono intimamente connesse, perché un percorso culturale crea sempre punti di contatto. Gli autori che conosco al festival sono quelli che invito in libreria, i percorsi che iniziamo in negozio con i ragazzi, poi evolvono durante la fiera: tutto è connesso.
Anche in questo caso, una manifestazione del genere ha una potenzialità immensa, soprattutto se riusciamo a coinvolgere ancora di più i giovani. Tra le altre cose, siamo anche organizzatori di un festival letterario per l’infanzia e l’adolescenza: si chiama Ricomincio dalle storie, è avvenuto due settimane fa, ed è il “figlio piccolo” del primo. Ci tengo molto: in Campania, l’attenzione alla letteratura per l’infanzia è molto scarsa. Secondo noi, invece, dovrebbe essere prioritaria in tutto il mondo culturale.