Francis Ford Coppola, nella sua ultima intervista per GQ, paragona i film di produzione Marvel, quelli dei supereroi, al “Dune” di Denis Villeneuve, uscito nelle sale italiane il 12 settembre 2021.
Coppola pensa che le grandi produzioni moderne, prive di immaginazione e tutte uguali fra loro, influenzino anche un certo cinema d’autore con un importante budget a disposizione.
Entrambi pensati come colossal, si differenziano notevolmente per guadagni ma non solo.
Il film di Villeneuve è difficile da accostare ai film sui supereroi, ma anche ai film recenti di James Bond, menzionati in maniera non lusinghiera sempre da Coppola.
Il tono di “Dune” è serissimo e solenne, non c’è spazio a umorismo o battute spiritose, come spesso avviene nei blockbuster sopra citati.
Nel primo, si contano poche scene d’azione, sempre dal gusto essenziale e composto; nei secondi, troviamo sfoggio di arti marziali e disastrosi incidenti automobilistici.
Inoltre, Villeneuve decide, con coraggio, di suddividere l’originale romanzo di Frank Herbert in due film.
Il primo capitolo, quello già uscito nelle sale, ha un carattere decisamente descrittivo, lasciando poco o niente allo sviluppo delle vicende.
Pochi fatti, poca azione, ma tanta cura dei dettagli, tale da far immergere il pubblico in un universo densissimo, di cui si descrivono costumi ed intrighi di potere.
Il sequel, annunciato dal regista a “Empire” per il 2023, si occuperà di sviluppare le trame e i personaggi che, nel film precedente, sono stati solamente introdotti.
Il problema di “Dune”, potenzialmente, è proprio quello di lasciare gli spettatori sospesi con un finale aperto, quando ancora non si è raccontato quasi nulla della storia.
Ma, probabilmente, questa è anche la forza del progetto.
L’esigenza di introdurre con calma un mondo complesso deriva anche dalla volontà di catturare un pubblico giovane, che non conosce il romanzo o gli adattamenti precedenti.
Ne è testimonianza la scelta di due divi della nuova generazione hollywoodiana come protagonisti: Zendaya e Timothée Chalamet.
Villeneuve dimostra di non aver fretta, realizzando la trasposizione di maggior successo dell’opera di Herbert, dopo il film flop di David Lynch (1984) e le basilari miniserie di Sci-Fi Channel (2000-2003).
Il regista non tradisce sé stesso, dando un carattere poetico e nel contempo straniante alle scene, lo stesso dei suoi “Arrival” e “Balde Runner 2049”.
Riesce a portare in sala un audience abituato a “l’intrattenimento audiovisivo”, per usare le parole di Scorsese, e rifiuta il solito espediente della scena dopo i titoli di coda: “C’è un’emozione finale molto specifica che stavo cercando con il fotogramma finale e non voglio rovinarla”.